lunedì 18 gennaio 2021
Domenica sera lo speciale del Tg1 interamente dedicato alle storie drammatiche, raccontate in prima persona, dei ragazzi di San Patrignano: chi ce l'ha fatta, chi è ancora dentro e cos'è la comunità
Due ragazze di San Patrignano si abbracciano, dopo la laurea

Due ragazze di San Patrignano si abbracciano, dopo la laurea

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Stefano, Daniele, Caterina, Martina, Nicol. Eccola qua, la carne viva dentro cui si consuma il dramma della droga. Non serve andare indietro nel tempo, non importa discutere i modelli, volti e storie potrebbero essere anche presi in qualsiasi altra comunità d'Italia che non sia San Patrignano, lasciata sullo sfondo del racconto appositamente, perché non è l'etichetta che conta, o la ricetta, sono loro. I ragazzi perduti. Da quanto tempo non li ascoltiamo? Quante volte gli è stato chiesto perché non sono felici? Perché si chiudono in camera, perché non parlano con nessuno, perché hanno iniziato a bere o a drogarsi? La storia comincia (e deve cominciare) qui. A raccontarla da tutt'altro punto di vista rispetto a quello scelto da Netflix per il suo SanPa - il docufilm tutto incentrato sulla figura controversa di Vincenzo Muccioli che tanto ha fatto discutere nelle ultime settimane - è lo speciale del Tg1 che è andato in onda domenica sera su Raiuno. Lontano da casa, il titolo, che racconta la discesa agli Inferi e il tentativo disperato di tornare a vedere la luce di un gruppo di giovani le cui vite si sono incrociate sulla collina di Coriano, a Rimini.

Nessun ospite blasonato, nessuna ricostruzione fatta per conto d'altri, nessuna opinione o giudizio. Solo, la cruda verità. Che è un pugno nello stomaco. Quello di Daniele, che a dodici anni comincia a fumare cocaina e a rubare soldi per dimenticare le orecchie a sventola e la sensazione costante «di essere diverso dagli altri, di essere da meno». Mentre ricorda le risse, il datore di lavoro che gli permetteva di drogarsi sul camioncino con cui smaltiva rifiuti illegalmente nel fiume vicino a casa, l'aborto della fidanzatina nemmeno quindicenne, le botte e le violenze sulla madre e la sorella, scorrono le immagini di un'infanzia felice: la recita di Natale, il compleanno festeggiato in casa con le candeline. Un bambino normale, una famiglia normale. Fino al baratro: la cocaina che non basta più, il passaggio all'eroina come fosse acqua fresca, le decine di pasticche di Xanax ingurgitate al giorno, i mix di sciroppi e le overdosi degli amici in casa. «Pensare che quando vedevo qualcuno per strada, sotto un ponte, mi montava la rabbia: guarda che tossici schifosi, ripetevo agli altri, e non vedevo quello che stava succedendo a me, la realtà non esisteva più». Non c'è un seguito, o un happy ending: Daniele è a SanPa, a vent'anni, con la sua blusa da cameriere e la sua speranza di potersi ricostruire in qualche modo. Chissà se ce la farà.

E poi Caterina, un viaggio negli abissi della disperazione dei disturbi alimentari e della dipendenza, il corpo che diventa merce di scambio, la vita per strada insieme ai senzatetto lontano, lontanissimo da casa. Anche lei ci sta provando, a ricostruirsi, gettando la maschera della droga e facendo i conti con le proprie fragilità: vorrebbe laurearsi, vorrebbe non deludere più i suoi genitori che l'aspettano a braccia aperte là fuori, vorrebbe guardarsi allo specchio e vedersi bella come si sentiva soltanto quando era strafatta, l'anima e il cuore bucati come le braccia.

A legare i racconti, a dare una prospettiva, la storia commovente di Stefano. Che da SanPa oggi sta uscendo dopo 6 anni di strada. La telecamera lo segue nell'abbraccio finale con chi l'ha sostenuto, e poi giù, fino all'autobus, alla camera d'albergo davanti al mare placido di Rimini. Salvato da un fratello più tossico di lui, che poco dopo averlo accompagnato a SanPa è morto di Aids («Sembra incredibile che questa vita me l'abbia regalata una persona che di tutto questo è morta» racconta), torna a casa per salvare anche lui il terzo fratello, il più piccolo, «che è per la strada come ero io alla sua età». E per salvare qualcuno, per essere credibile agli occhi di chi alla droga sacrifica la propria esistenza per cancellarne gli ostacoli, «ho dovuto imparare a crederci anche io che si potesse fare, che ne valesse la pena».

È quello che si impara in comunità, oggi: nei percorsi seguiti da decine di educatori e di psicologi, nei programmi di rieducazione e di reinserimento lavorativo, nel sostegno che anche le famiglie dei ragazzi ricevono. Ma soprattutto nella convivenza con gli altri ragazzi perduti in un ambiente protetto, dove cadono i giudizi e le paure e le regole del mondo là fuori si imparano daccapo, ogni giorno, a costo di sacrifici enormi. Funziona? Non sempre, non allo stesso modo, non negli stessi tempi. E le ferite, quelle non si rimarginano mai. Ma i protagonisti sono e restano Daniele e Caterina e Stefano. Per capire cos'è la droga, il mostro che faceva paura negli anni Ottanta e che oggi facciamo finta che non esista più, bisogna tornare a concentrarsi su di loro.


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