giovedì 8 dicembre 2016
Non c’è nessuna concorrenza tra italiani e stranieri nell'assegnazione delle case popolari. I requisiti richiesti così come i tempi di attesa sono gli stessi. A spiegarlo il sindacalista del Sicet.
Dopo la rivolta di Roma. «Stranieri falso problema»
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Non c’è nessuna concorrenza tra italiani e stranieri nell'assegnazione delle case popolari. Lo dicono innanzitutto i numeri. «Se guardiamo agli immigrati presenti negli alloggi pubblici delle nostre città, non raggiungiamo il 5% del totale» spiega subito Guido Piran, segretario generale del Sicet, il sindacato inquilini della Cisl.

Ciò che è accaduto a Roma martedì, nel quartiere San Basilio, dove un gruppo di italiani è insorto contro una famiglia marocchina che, legittimamente, era stata indicata per un alloggio nel quartiere (e poi ha dovuto rinunciare, viste le proteste) non è lo specchio di quanto accade nel resto del Paese. Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: vicende come quelle della Capitale rappresentano episodi eclatanti ma circoscritti di tensione tra cittadini autoctoni e nuovi arrivati e riguardano soprattutto zone che da decenni si sono trasformate in veri e propri ghetti o enclave.

Eppure non ci sono diversità di trattamento e discriminazioni ai danni dei nostri connazionali. I requisiti richiesti alle famiglie straniere per l’assegnazione degli alloggi sono esattamente gli stessi richiesti agli italiani: i punteggi riguardano il reddito (molte Regioni usano l’indicatore Isee) il numero dei componenti delle famiglie, l’eventuale presenza di soggetti con fragilità, l’età dei diversi membri. I tempi di attesa per vedersi riconosciuto il diritto all’alloggio sono analoghi.

«Non solo – aggiunge Piran – negli ultimi anni si è registrato semmai un certo ostracismo da parte di leggi nazionali e regionali nei confronti dei possibili inquilini stranieri. Il piano Case realizzato nel 2008, ad esempio, era destinato a chi era residente in Italia da più di 10 anni e in Regione da almeno 5. Non proprio un lasciapassare per gli immigrati che volevano entrare nelle graduatorie». Diverso è il discorso relativo ai casi concreti, spesso tollerati dalle istituzioni per evitare tensioni sociali. Può accadere che, in una stessa casa, vivano contemporaneamente più nuclei familiari (e questo accade spesso con famiglie straniere) «o che si chiuda un occhio sulle regolarizzazioni di case abusive, anche per ragioni di natura sociale».

Complessivamente, va detto che il fenomeno delle nuove occupazioni abusive si è attenuato, in particolare a Roma, mentre restano forti le occupazioni storiche, che nella Capitale coinvolgono migliaia di persone. «Non si può neppure dimenticare che il Comune di Roma, a oggi, non ha ancora assegnato la delega alla casa a uno degli assessorati» continua Piran. Rimane poi il problema dei movimenti che, dall'estrema sinistra (i centri sociali a Milano e Bologna) all'estrema destra (è il caso di Roma) soffiano sul fuoco della rivolta, approfittando anche di scelte locali poco lungimiranti: inserire in un contesto abitativo in cui regnano degrado e marginalità sociale dei gruppi di stranieri, è come mettere benzina sul fuoco. Ma questa è solo una faccia (la più raccontata) della narrazione.

L’altra è quella dei palazzi solidali, con le badanti di condominio al servizio di anziani, persone sole e fragili in otto città: si è partiti dal capoluogo lombardo, da Torino e da Genova e ora l’obiettivo è garantire assistenza a chi ha bisogno nei quartieri popolari di altre città, a Nord come a Sud. «La verità è che scontiamo decenni di oblio – conclude il sindacalista –. L’unica soluzione, contro razzismo e rivolte più o meno ispirate, è il ritorno a politiche vere, fatte soprattutto dai primi cittadini».

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