martedì 3 gennaio 2012
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Il peggior servizio che si possa fare allo scomparso don Verzé è quello di dimenticarci che cosa è stato e probabilmente sarà ancora negli anni a venire l’Ospedale San Raffaele e quale parte ha avuto la sua invenzione nel modificare profondamente, alle radici addirittura, la concezione della sanità, dell’assistenza e della cura dei malati. Senza scordarci il contributo incontestabile dell’eccellenza che il San Raffaele ha perseguito con una determinazione assai poco comune nelle faccende di casa nostra nella ricerca e nella qualità delle prestazioni sanitarie.Ma la morte ha colto don Verzé nel momento meno favorevole alla sua immagine pubblica. Più che la paziente opera di edificazione di un modello imprenditoriale e soprattutto umanistico che metteva il malato al centro del sistema e la sua cura come un imperativo etico, rischiamo di trovarci di fronte a un quadro ricco – è vero – di contraddizioni e di zone d’ombra, ma dove lui e questa autentica opera-mondo, capace di coniugare gli opposti e spavaldamente trarne una sintesi imprevedibile, assumono una connotazione in prevalenza negativa. Il che è profondamente non vero. Certo, scienza e finanza allegra, ricerca e grandeur, umiltà e pacchianeria si sono mescolate nelle sue mani come cera da modellare per un progetto che più volte ha impensierito la Chiesa e stizzito il mondo accademico e le varie caste baronali che della medicina, della salute, della cura dei malati avevano (e hanno ancora) idee molto diverse dalle sue.Ma don Verzé era un po’ come Fitzcarraldo, l’indimenticabile personaggio del film di Werner Herzog, disposto a trasportare a spalla una nave attraverso le montagne amazzoniche pur di realizzare il proprio sogno di allestire un teatro d’opera in un villaggio di indios: progetto folle, osteggiato da tutti proprio perché visionario. Come Fitzcarraldo, don Verzé aveva una grande considerazione di due fattori: la volontà e, state bene attenti, il denaro. «Io rifiuto – disse in una delle rare interviste – la contrapposizione fra Dio e denaro. Sono d’accordo di coltivare la ricchezza per trarre fuori i poveri dalla loro miseria». Quanto alla volontà, certamente la sua era d’acciaio. Chi oggi guardasse a volo d’uccello il vasto impero travolto da debiti, malafinanza e – temiamo – altri poco nobili segreti che è il San Raffaele faticherebbe a riconoscere il giovane Verzé che negli anni Cinquanta si trasferisce a Milano con diecimila lire in tasca e l’ordine perentorio di don Calabria di aprire un ospedale. Nativo di Illasi, in provincia di Verona, nel 1920, laureato in Lettere classiche all’Università Cattolica, ordinato sacerdote nel 1948, don Verzé non perse tempo. Il progetto nacque nel 1950, ma la prima pietra del San Raffaele (l’arcangelo il cui nome sta per "medicina di Dio", o anche "colui che guarisce") venne posta solo nel 1969. In mezzo un richiamo della Curia milanese nei confronti di questo prete irrequieto quanto imprevedibile, che tuttavia, a differenza di quanto si è varie volte scritto, non è mai stato sospeso a divinis  e sino all’ultimo è stato incardinato nella sua diocesi veronese d’origine.Inutile dunque sarebbe allineare qui fasti e opere, luci e ombre di un sacerdote che vestiva più da manager che da uomo di Chiesa, che aveva il chiodo fisso di ricoverare i poveri con la stessa diligenza e disponibilità con cui alloggiava i ricchi e i potenti (fu l’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster a sollecitargli «un ospedale per i borghesi», nel senso della classe economicamente medio-bassa), che radunò nel suo istituto ricercatori di fama mondiale e affollò la sua neonata università di pensatori non di rado controversi come Massimo Cacciari, Emanuele Severino e Roberta De Monticelli (egli stesso pubblicò nel 2004 un saggio in cui poco caritatevolmente formulava «i dieci pensieri per il prossimo Papa») gettando ponti seducenti sui traguardi della medicina, sul possibile prolungamento della vita a centoventi anni e anche – in modo purtroppo ambiguo – sull’opportunità di concluderla talora anzitempo («Quando a chiederlo è chi vive grazie alle macchine – disse nel 2006 in una bruciante intervista al Corriere della sera – allora non è eutanasia. È un atto d’amore»): per don Verzé limiti e divieti non sembravano esistere, ogni ostacolo finiva inevitabilmente per assumere il profilo di un limite da superare, quasi un avversario metafisico che gli sbarrava il cammino come le montagne amazzoniche per la nave di Fitzcarraldo. All’inizio furono ostacoli di ordine burocratico, bancario, demaniale, che egli aggirava e superava con astuzia e tenacia (e con assortite alleanze politiche, che gli semplificavano di molto il percorso) costruendo ed espandendo il proprio impero. Negli ultimi anni tuttavia quella ferrigna volontà di fare, che Schopenhauer chiamava Wunschvorstellung e che a lui si attagliava a meraviglia, cominciava a scolorarsi nell’assecondare qualche futile capriccio. Perfino il check-in degli aeroporti (quella a volte fastidiosa procedura di controlli e di attese prima di imbarcarsi) aveva finito per venirgli a noia, al punto da fargli ordinare un jet da 20 milioni di euro anche per evitare le code a Malpensa o a Fiumicino. La hybris aveva finito per avvolgerlo senza che forse nemmeno se ne avvedesse. A nutrire gli eccessi e il gigantismo che non appartenevano più esclusivamente alla visione di una medicina dell’eccellenza non si possono ritenere estranei quei conti malandrini, quelle partite in nero, quelle provviste nascoste, quei "palpiruoli" (come avrebbe detto Gadda) disseminati per il mondo che fanno da contraltare alla voragine debitoria in cui era precipitato il San Raffaele e che ora gli inquirenti stanno portando alla luce. La tragica fine del braccio destro di don Verzé, Mario Cal, suicidatosi alla vigilia di una severa ispezione dei conti del suo vasto impero, non ha fatto che schiudere il coperchio di un pozzo buio di cui purtroppo non sembra conoscersi ancora il fondo.Ma non diamone tutta la colpa a don Verzé. Certamente, a grandi linee, sapeva e probabilmente approvava, lasciava correre, considerando la disciplina di bilancio e l’esattezza dei conti uno dei tanti limiti da aggirare.Centinaia di migliaia di persone, di pazienti, di dipendenti tuttavia lo hanno amato e ammirato senza riserve. Decine di uomini famosi hanno sgomitato per parlargli, frequentarlo, farsi curare nelle ordinate stanze dei suoi ospedali. Per essi don Verzé rimarrà icona indelebile di volontà, lungimiranza e filantropia. E pazienza se i conti non tornavano, se le fatture non combaciavano, se le casse del San Raffaele si erano prosciugate. La cerchia ristretta di collaboratori che lo proteggeva e lo metteva al riparo dagli strali del mondo faceva quadrato, fino – forse – all’estremo sacrificio pur di preservarlo da questi fastidi. «La Provvidenza – amava dire don Verzé a chi gli domandava come facesse a procurarsi il denaro per le sue molteplici iniziative internazionali – è il mio unico finanziatore». Ma non soltanto quello: portandoselo via, gli ha probabilmente risparmiato le immaginabili amarezze cui sarebbe andato incontro nei giorni a venire.
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