giovedì 15 marzo 2012
C’è chi ha venduto i gioielli della moglie. Chi la fede nuziale. Chi ha tentato quattro volte il suicidio. Ora provano a dire basta. Viaggio nelle associazioni che aiutano i malati compulsivi delle puntate d’azzardo a uscire da un vizio devastante che sconvolge i protagonisti e le famiglie. Oltre ai debiti, c’è una grande sofferenza.
L’appello delle associazioni: alt agli spot in fascia protetta
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​«Stasera festeggiamo Marco che ha centrato un sei»: non è l’esordio che ti aspetti a una riunione dei Giocatori Anonimi, e non sono quelle che ti aspetti le persone – tante, almeno una quarantina – disposte in cerchio, in modo che ciascuno possa vedere tutti gli altri. Accoglienti nei modi, incoraggianti negli sguardi, disponibili all’ascolto. Coraggiosi nel raccontarsi: nel dichiarare ricadute e scoramenti, mancanze e bugie.È una gran vincita quella di Marco, perché il sei fortunato che ha azzeccato segna gli anni in cui si è tenuto lontano dal gioco. Senza mai sentirsi al sicuro: il giocatore compulsivo sa che ogni giorno è una conquista, che si vive ventiquattro ore alla volta, che non ha senso preoccuparsi del giorno appresso, della settimana che verrà o del prossimo anno. Perché non si può fare niente per ieri e neppure per domani: è solo sull’oggi che si può incidere, è solo adesso che si può scegliere di non giocare. I primi novanta giorni sono cruciali. E tre mesi di astinenza – di sobrietà, come la chiamano loro – sono già un successo. Per qualcuno ancora un miraggio: «Sono Filippo, questa è la mia seconda riunione. Dopo la prima, lunedì scorso, ero carico, motivato, convinto di farcela. Martedì mi sono svegliato il solito Filippo, quello che non sa resistere, quello che ha messo sottosopra la casa in cerca di soldi per giocare. Ho trovato il nascondiglio dove mia moglie tiene i suoi pochi gioielli. Ho preso un bracciale e l’ho portato da chi compra l’oro e con i novecento euro che ne ho ricavato ho giocato martedì, mercoledì, giovedì e poi ho smesso ma solo perché i soldi sono finiti. Mia moglie non sa niente, ho paura che se confesso mi sbatterà fuori di casa un’altra volta. Anche se, fino a oggi, mi ha sempre ripreso...».La moglie di Filippo non c’è ma ce ne sono molte altre: una volta al mese viene organizzata una riunione congiunta di G.A. e di Gam-Anon, i familiari dei giocatori compulsivi. Nel simbolo dell’associazione campeggia un’àncora: questo sono le mogli, le figlie, le sorelle per molti giocatori. Un’àncora di salvezza, stimolo e incoraggiamento per chi decide di provare a cambiare vita. «Sono cinque settimane che non gioco e qui mi ci ha portato mia figlia» spiega con le lacrime agli occhi un signore distinto. Che non racconta nulla ma ringrazia soltanto la donna che lo guarda e lo applaude.«Mio padre – prende la parola un’altra figlia, che ha in serbo parole dure ma le pronuncia con tono amorevole, fissando papà – non c’era mai. Non è stato al mio fianco quando sono stata tanto malata in ospedale, non era con me quando ero felice né quando avevo un problema. Ogni giorno che ha passato giocando lo ha sottratto a me. Lo abbiamo perso entrambi. Adesso mio padre c’è. E ogni giorno che sta lontano dal gioco è un giorno che entrambi guadagnamo». Uno dei consigli dispensati dai G.A. ai nuovi membri è: dì tutto al tuo partner che inevitabilmente sta soffrendo per la tua malattia. Per le bugie. Per i debiti. Per le promesse mai mantenute. Per le ricadute. Tutti i giocatori patologici mettono in conto le recidive e provano a conviverci, a superarle. Ad abbatterle con l’aiuto degli altri: per far parte del G.A. non conta non giocare più, serve il desiderio di smettere. E provarci sul serio. «Sono otto anni, sei mesi e diciassette giorni che non gioco» diceva Aurelio lunedì. E raccontava che anche lui si era venduto tutto l’oro della moglie: «Anche la fede nuziale ho messo sul piatto del tavolo da gioco venticinque anni fa, al mio Paese, in Romania. E quando mia moglie lo ha scoperto ha fatto fondere la sua, facendone un paio di orecchini per nostra figlia. La stessa figlia che mi ha aiutato due anni fa a organizzare un viaggio a casa, che ha cercato su internet un bel vestito, ha preso accordi con il prete, ha avvisato gli amici. Tutto di nascosto, perché mia moglie non sapesse che l’avrei sposata ancora, questa volta in chiesa, per rimetterle la fede al dito». «Sono cinque giorni che non gioco. È la mia seconda riunione, ho tentato quattro volte il suicidio»: toccherà anche a lui, a questo nuovo fratello che è solo all’inizio del suo percorso, una delle candeline spente da Marco per festeggiare il sesto anniversario del suo primo giorno da non-giocatore. Un gesto altamente significativo, questo regalo, una tradizione di G.A.: serve a incoraggiare qualcuno a non mollare oppure a gratificare chi ha raggiunto un obiettivo o, semplicemente, a testimoniare affetto e stima. La riunione – una liturgia – si ripete sempre uguale nella forma: comincia con la lettura degli scopi dell’associazione e dei dodici passi su cui si basa il programma di recupero, prosegue con le testimonianze dei giocatori, si conclude con la lettura della preghiera del teologo americano Reinhold Niebuhr: Signore concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza di riconoscerne la differenza. Poi via, verso le prossime ventiquattr’ore.
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