mercoledì 27 maggio 2020
L'ultima Relazione del ministero della Giustizia al Parlamento. Mentre cresce il sovraffollamento chi è impegnato in attività lavorative scende in due anni dal 31 al 27 per cento
Detenuto al lavoro

Detenuto al lavoro - Ansa

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Continua a calare il lavoro in carcere. Un gran brutto segnale, proprio mentre sono invece aumentate le tensioni sia per l'emergenza Covid-19 che per il sovraffollamento. Basti ricordare le proteste violente nei primi giorni di marzo che provocarono 12 morti. Diminuiscono in numero assoluto i detenuti impegnati in attività lavorative e, ancor più grave, in percentuale, visto che le presenze in carcere sono invece aumentate. È quanto emerge dalla "Relazione sullo svolgimento da parte dei detenuti di attività lavorative o di corsi di formazione professionale per qualifiche richieste da esigenze territoriali" per l’anno 2019, inviata al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Documento che porta ancora la firma del dimissionario direttore del Dap, Francesco Basentini, da poco sostituito da Dino Petralia. Una fotografia destinata sicuramente a peggiorare, in conseguenza del blocco per la pandemia di tante attività anche il carcere.

Il documento segnala che l'ultimo dato disponibile sul totale dei detenuti lavoranti è di 16.850, pari al 27,84% dei presenti. Nella precedente relazione erano 17.936 unità (17.602 nel 2017). Come percentuali eravamo al 29,52% nel 2018, già in calo rispetto al 31,94% del 2017. Tre anni negativi che invertono la tendenza in aumento dal 2012, quando i detenuti lavoranti erano solo il 21,01%, con una popolazione carceraria di 65.701 persone, mentre ora siamo attorno alle 60mila dopo un calo che li aveva portati a poco più di 50mila.

Questo totale di detenuti che passano almeno qualche ora a lavorare è frutto di dati e tipologie molto diverse. Così il numero di detenuti lavoranti impegnati nella gestione quotidiana dell'istituto sono 13.582, in aumento rispetto al 2018 quando erano 12.922 e al 2017 quando arrivavano a 12.319. Si tratta di lavoro poco qualificato, legato appunto alle attività interne, come pulizie e cucina. Un po' più qualificati sono i lavori svolti da detenuti impiegati alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria in attività di tipo industriale. Sono in leggero aumento ma i numeri sono molto bassi. La Relazione per il 2019 ne indica 661, rispetto ai 613 del 2018 e ai 598 del 2017. Decisamente in calo i detenuti impiegati nel settore agricolo. Nel 2018 erano 402, in forte aumento rispetto ai 241 del 2017. Nel 2019 sono scesi di quasi cento unità arrivando a 309.

Luci e ombre per il lavoro cosiddetto "esterno". I detenuti dipendenti da datori di lavoro esterno risultano lo scorso anno 2.459, rispetto ai 2.293 del 2018. Ma all'interno di questo settore calano i numeri relativi alla legge Smuraglia, che prevede misure di vantaggio per le cooperative sociali e le imprese che vogliano assumere detenuti. Erano 1.576, sono scesi a 1.524. E, ricordiamo, sempre a fronte di un aumento dei detenuti in carcere, da 54mila a 60mila. Mentre negli ultimi tre anni la cifra destinata al lavoro in carcere è rimasta sempre la stessa: 100.016.095 euro. Così non solo lavorano meno detenuti, ma lavorano con orari ridotti, anche perchè nell'ottobre 2017 sono state adeguate le paghe, ferme dal 1994, aumentando le retribuzioni dell'80%. Ma lo stanziamento è rimasto lo stesso. Anche se, si legge nelle prima parole della Relazione (sempre le stesse da anni), "il lavoro è ritenuto dall'Ordinamento penitenziario l'elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato costituzionale che assegna alla pena una funzione rieducativa". Difficile con pochi fondi.

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