mercoledì 30 giugno 2010
Un mese e mezzo fa il pg aveva chiesto la condanna del senatore a 11 anni, due in più rispetto a quella comminata in primo grado. Ieri la decisione della corte d’appello che hanno ridotto la pena e rivisto i capi d’imputazione. Delusa la pubblica accusa: bisogna capire perché non viene riconosciuta la connection politica. Soddisfatta la difesa.
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Avrebbe favorito la mafia prima del 1992, prima della nascita di Forza Italia e del suo impegno attivo in politica. Per questo il senatore del Pdl, Marcello Dell’Utri, è stato condannato ieri mattina a sette anni di reclusione. Ma per ciò che è successo dopo, per gli episodi raccontati da pentiti come Nino Giuffré e Gaspare Spatuzza, che hanno indicato il senatore Dell’Utri e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi come i referenti politici di Cosa nostra dopo le stragi del ’92, è arrivata l’assoluzione del parlamentare azzurro «perché il fatto non sussiste».È quindi una condanna a metà quella pronunciata ieri nell’aula bunker di Pagliarelli a Palermo dalla seconda sezione della Corte di appello di Palermo, presieduta da Claudio Dall’Acqua, a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare, che ha riformato il giudizio di primo grado che nel 2004 aveva inflitto nove anni all’ex manager di Publitalia. Un verdetto, giunto dopo quasi sei giorni di camera di consiglio e in un’atmosfera carica di attesa, che cerca di spazzare via le ombre che si erano addensate sulla nascita del partito del premier e che soddisfa parzialmente l’imputato. Dell’Utri, che non era presente in aula, da Milano ha parlato di «sentenza pilatesca».Deluso il procuratore generale Nino Gatto, che ha sostenuto l’accusa del processo d’appello: «Vedremo quali sono le motivazioni. Sono stupito. In pratica le cose dette da Spatuzza e l’intero impianto accusatorio non è stato preso nella giusta considerazione. Bisogna capire perché la corte ha deciso di eliminare la “stagione politica” da questo processo». Attende le motivazioni per capire se le dichiarazioni di Spatuzza, il nuovo pentito a cui il governo qualche settimana fa non ha concesso il programma di protezione, non hanno trovato i dovuti riscontri, o se il collaboratore non è stato ritenuto credibile. Per dar forza al racconto di Spatuzza, depositato in pagine e pagine di verbali, il pg Gatto aveva chiesto di ascoltare i boss di Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, col risultato che solo il primo ha parlato e ha dichiarato di non aver mai conosciuto Dell’Utri.Il resto della sentenza è chiara. La Corte d’appello ritiene provato che Dell’Utri intrattenne stretti rapporti con la vecchia mafia di Stefano Bontade e poi, dopo il 1980, con gli uomini di Totò Riina e Bernardo Provenzano, almeno fino alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino. Comportamenti provati da alcuni fatti: innanzitutto, l’assunzione del boss palermitano Vittorio Mangano per fare da stalliere nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. L’uomo di cui ancora una volta Dell’Utri dice: «Mangano è stato il mio eroe. Era una persona in carcere, ammalata, invitata più volte a parlare di Berlusconi e di me e si è sempre rifiutato di farlo». Parole che hanno scatenato la dura reazione dei giovani del Pdl e del vicepresidente della commissione Antimafia, Fabio Granata. «Attraverso la mediazione di Dell’Utri e del mafioso Gaetano Cinà (morto nel 2006, ndr) – aveva ribadito il procuratore generale Nino Gatto poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio – Mangano assicurò protezione contro l’escalation dei sequestri a Milano». Nell’autunno 1974, l’arrivo di Mangano sarebbe stato sancito da un incontro fra Dell’Utri, Berlusconi e i capimafia Stefano Bontade e Mimmo Teresi, nella sede della Edilnord. La sentenza di primo grado sosteneva pure che prima del 1980 Dell’Utri avrebbe fatto da tramite per gli investimenti a Milano del capomafia Stefano Bontade.Soddisfatta la difesa di Dell’Utri. «Con questa sentenza si mette una pietra tombale sulla presunta trattativa tra Stato e mafia durante il periodo delle stragi», afferma l’avvocato Nino Mormino, che ha difeso il parlamentare assieme a Giuseppe Di Peri, Alessandro Sammarco e Pietro Federico.
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