domenica 27 marzo 2016
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PALERMO Da comandante delle truppe del “Leone del Panshir”, uno dei più grandi mujaheddin anti-talebani di Kabul, a prof di cucina per gli studenti di una scuola superiore di Palermo. Non immaginava certo Shapoor Safari, un afgano di 40 anni che imbracciava i fucili contro i terroristi di Al Qaeda, che un giorno sarebbe diventato il cuoco di punta di un ristorante del capoluogo siciliano, il Moltivolti, simbolo di integrazione tra la comunità locale e quella multietnica dello storico mercato di Ballarò. «La guerra ha completamente stravolto la mia vita – racconta Safari – si è portata via mio padre e la mia sorellina di appena 11 anni, uccisi in casa senza alcuna pietà dai talebani. Non avevamo nessuna libertà. Non riesco ancora a dimenticare le atrocità compiute contro le donne, ma preferisco non parlarne non si possono ripetere certe cose. Non era più possibile rimanere, ero troppo preoccupato per l’incolumità di mia madre e dei miei fratelli e per questo ho deciso di lasciare la mia terra». Comincia così, nel 2002, un lungo peregrinare durato più di due anni attraverso l’Iran, il Pakistan, la Turchia e finalmente l’Italia, dove giunge a bordo di un barcone. Una traversata costata 3mila dollari. A Palermo tappa finale del suo viaggio, ha riacquistato la serenità e la voglia di ricominciare. «Qui sto bene, la gente è molto gentile e ti sorride, ho trovato molti amici e un lavoro che mi appaga». Una nuova vita possibile in una città e in un quartiere modello di integrazione, dove si contano oltre quindici etnie. Un luogo ricco di grandi energie, odori, sapori dove alcuni ragazzi hanno deciso di investire creando uno spazio coworking e poi Moltivolti, che conta cinque etnie in cucina (Afghanistan, Etiopia, Zambia, Gam- bia, Bangladesh, Italia) e due soci, Arina Nawali e Youssupha Thiam, che vengono rispettivamente dallo Zambia e dal Senegal. Dietro, una filosofia e una progettualità ben precisa. Uno spazio in cui associazioni, gruppi e individui avessero un luogo dignitoso dove operare e si ritrovassero per sviluppare progetti, idee, relazioni. Ed è proprio il tema della relazione, che diventa integrazione tra i residenti e la comunità multietnica, l’elemento principale. Il migrante non è destinatario passivo ma soggetto attivo, non a caso due di loro sono soci e hanno investito nel progetto. Sembrano così lontani dai quei giovani, figli di immigrati di seconda o terza generazione che sono «non frutto dell’estremismo islamico, bensì artefici dell’islamizzazione dell’estremismo », come ricorda il politologo e orientalista francese, Olivier Roy e che lo stesso Shapoor definisce «demoni, non uomini», commentando i fatti di Bruxelles. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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