mercoledì 21 aprile 2010
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La prima reazione è istintiva. E assomiglia a un vero atto d’accusa. «Così Fini ha buttato al vento il suo futuro, la sua carriera politica...». Silvio Berlusconi ripete, quasi meccanicamente, poche parole. Senza calibrarle. Senza valutarne gli effetti. Tiene gli occhi fermi sugli ultimi lanci d’agenzia. Riflette sugli affondi di Fini. Anche su quelli meno politici. Quasi personali. «Mi attacca addirittura su Saviano... Lo sapevo che sarebbe finita così...», ripete a bassa voce. La tensione è sempre più alta e il rapporto sempre più compromesso. Presto la politica torna protagonista. Fini presenta la sua corrente, Berlusconi la stoppa con parole nette, dure. Per certi versi anche inattese. «È una cosa senza senso, una cosa che non accetto... Questa è la vecchia politica che ho sempre combattuto e che continuerò a combattere». È la dichiarazione di guerra. Per cento minuti il premier sembra solo con se stesso. Poi, quando sta facendo buio, parla davanti allo stato maggiore del Pdl riunito a Palazzo Grazioli. E conferma, parola dopo parola, la linea dura. «Non accetto l’idea di una corrente...». Tutti guardano il premier, tutti provano a farlo ragionare. Ci sono Verdini, Bondi, Alemanno, Lupi, Gasparri, Quagliariello... Berlusconi cerca gli occhi di ognuno di loro e scandisce l’attacco finale contro il presidente della Camera che ora evita anche di nominare. «Faccia come aveva detto nuovi gruppi parlamentari, faccia un nuovo partito... A questo punto è meglio il confronto con un partito che con una persona che ha perso definitivamente la testa». La sua, di testa, è già alla direzione di giovedì. Ma nulla è ancora chiaro. Non c’è una "scaletta". Non si capisce se sarà Fini ad aprire i lavori. O se, invece, toccherà ai coordinatori. Quello che è certo è che Berlusconi vuole prima capire e poi, eventualmente, intervenire. Se lo farà sarà per parlare chiaro. Per ripetere a Fini (e al Paese) quello che nella notte ripete ai suoi collaboratori: «La gente si aspetta riforme, risultati, buon governo, unità... E noi ecco l’immagine che diamo...». C’è tutto in quelle parole. Anche la consapevolezza che sarà difficile ritrovare unità. «Basta con questo continuo stillicidio... Basta con queste estenuanti trattative... La gente non ci capisce più». E allora? Meglio davvero la rottura? Berlusconi riflette silenzioso. Poi ripete venti parole che non spiegano: «O troviamo una nuova intesa. Vera, forte. Capace di restituire al Pdl unità. O meglio... C’è una cosa che proprio non posso accettare: navigare a vista e farmi logorare...». Molte cose non convincono il premier. C’è chi trama? C’è chi organizza nuovi soggetti? Berlusconi non va oltre, ma racconta ai suoi di aver avuto, anche nelle ultime ore, un «lungo e affettuoso» colloquio telefonico con Montezemolo e che sia uscito da quella chiacchierata rassicurato: l’ex capo della Fiat non vuole organizzare nessun terzo polo. Ora il nemico è un altro. È Gianfranco Fini. È la sua idea di organizzare la minoranza interna. «Di condizionarmi», ripete il Cavaliere che torna a scandire i suoi no: «Ritornare ora ad una divisione pur legittima, tra correnti o gruppi che si contano e si assegnano un ruolo in base a questo legittimo criterio numerico, appare un salto all’indietro... Un intollerabile salto all’indietro». Tutti capiscono che è impossibile ipotizzare la fine della guerra. Perchè è davvero guerra. Qualcuno sottolinea la mancanza di Italo Bocchino al vertice di Palazzo Grazioli e rivela: Berlusconi non lo vuole più vedere. «Non posso permettere che qualcuno possa tentare di logorarmi e non voglio più trattare con certe persone», ripete Berlusconi che non nega l’eventualità di un voto anticipato. Molti provano a farlo ragionare. Uno solo viene ascoltato: Umberto Bossi. «Non possiamo rompere, occorre trovare un accordo», gli ripete il senatur sempre più preoccupato che possa saltare tutto il lavoro svolto sul federalismo. E che si prospettino le condizioni per un governo istituzionale che naturalmente neanche il presidente del Consiglio vuole. Ma questa è una storia su cui si potrà ragionare solo dopo giovedì.
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