mercoledì 28 aprile 2010
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Teleperformance, una multinazionale dei call center con sede anche in Italia, ha deciso di dichiarare lo stato di crisi dopo un 2009 in perdita e un inizio del 2010 ancora in negativo. I posti a rischio, tra le sedi di Taranto e Roma, sono circa 850 su 3.200 dipendenti che venerdì, per protestare contro i tagli annunciati, incroceranno le braccia per tutto il giorno. Phonemedia e Omnia Service si sono dissolte lasciando oltre 10mila dipendenti, da Novara a Palermo, senza retribuzione da mesi e in bilico sul precipizio della disoccupazione. Il settore dei call center sta vivendo oggi una difficile stagione di crisi. Forse la più critica. Anche perché, nel frattempo, il mercato ha cambiato radicalmente volto.Nati intorno alla fine degli anni Novanta, i call center sono cresciuti velocemente, diventando presto un fenomeno anche sociale. Per anni sinonimo di precariato e di sfruttamento, sono stati l’approdo di mille "naufraghi del lavoro", di giovani laureati e di belle speranze a caccia della prima occupazione. Un mercato senza regole e difficile da monitorare, anche a causa di un’eccessiva frammentazione e di tante micro-realtà.Poi, nel 2006, la circolare Damiano ha finalmente accesso i riflettori sul settore con l’obiettivo di trasformare l’attività dei call center in un lavoro "vero". Una lotta per la trasparenza che ha portato alla regolarizzazione di oltre 24mila precari. Secondo Assocontact, l’associazione di categoria che riunisce le principali società di call center, oggi le imprese del settore sono più di 200 e occupano tra le 70 e le 80mila persone, delle quali circa 50mila a tempo indeterminato, per un volume d’affari di poco inferiore al miliardo di euro. Anche se sono le prime 15 aziende a realizzare, da sole, circa il 75% dell’intero fatturato.Nonostante la crisi il giro d’affari dei servizi inbound, ossia l’assistenza clienti telefonica, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 ha visto una crescita del 18%, molto più della media annua dell’ultimo quinquennio (+ 14,3%). E anche le attività di vendita telefonica (outbound) si sono trasformate negli anni in un prezioso canale commerciale per tanti settori, dalle telecomunicazioni ai media, fino al comparto bancario o assicurativo.Ora però, il settore è tornato a vivere un nuovo periodo di sofferenza. Con costi che – dicono le aziende – stanno superando i ricavi. Le imprese del settore infatti stanno per esaurire gli incentivi previsti dalla legge 407 per chi, quattro anni fa, aveva assunto a tempo indeterminato i propri dipendenti sulla spinta della circolare Damiano. A questi sforzi di stabilizzazione dei lavoratori delle grandi realtà, però, hanno continuato a fare da contraltare le irregolarità delle tante micro-imprese "fantasma" che «favoriscono inaccettabili logiche di dumping sociale». A dirlo è proprio Cesare Damiano, protagonista dell’ondata di regolarizzazioni degli ultimi anni e capogruppo del Pd in commissione Lavoro della Camera. Per Damiano «servono interventi da parte del governo, a partire dalla diminuzione dell’incidenza dell’Irap, fino al monitoraggio delle offerte dei committenti, pubblici e privati».Si tratta, come sottolinea anche il neopresidente di Assocontact, Sergio Abramo, di un vero e proprio problema industriale, perché molte realtà continuano a lavorare agli stessi prezzi che i clienti gli riconoscevano prima della grande regolarizzazione, quando ancora i dipendenti venivano inquadrati con contratti co.co.co. (e con un costo del lavoro di molto inferiore). Per questo «abbiamo chiesto un incontro al ministero dello Sviluppo economico per la fine di aprile, con l’obiettivo di raggiungere un nuovo accordo sulla flessibilità, così da prevedere un tetto di ore lavorative supplementari da utilizzare solo in caso di picchi operativi», sottolinea Abramo.«È una crisi annunciata», fa eco il segretario generale nazionale della Fistel Cisl, Vito Vitale, secondo cui non bastava regolarizzare i precari ma bisognava completare il processo e «coinvolgere i committenti obbligandoli ad adeguare i prezzi delle commesse ai nuovi costi del lavoro». «Il costo orario di un dipendente regolarmente assunto non è mai inferiore ai 16 euro, ma a volte capita di prendere delle commesse che non superano la paga oraria di 12 euro. Per sostenere questi costi serve una vera organizzazione industriale strutturata, altrimenti il futuro diventa presto incerto». Ne è convinto Gabriele Moretti, amministratore delegato di Contacta, società torinese con 1.200 dipendenti, di cui il 70% a tempo indeterminato. Così, dalla crisi industriale alla "questione sociale" il passo è breve, «anche perché si stanno creando delle vere e proprie bolle territoriali pronte a scoppiare», avverte il segretario generale della Slc-Cgil, Emilio Miceli.A preoccupare è anche il processo di delocalizzazione all’estero, soprattutto in Romania e Albania. Molte società infatti, hanno iniziato a guardare a Paesi dove, oltre a una buona conoscenza della lingua italiana, anche il costo del lavoro è più che dimezzato rispetto all’Italia. Così, buona parte delle attività che fino all’altro ieri erano gestite da call center nostrani (contratti commerciali, pratiche amministrative o semplice telemarketing), oggi sono svolte da operatori che alzano la cornetta da Tirana, Bucarest o Tunisi. O persino dal Sud America. «Non si tratta però ancora di cifre significative, perché chi vuole fare davvero qualità, fa fatica a delocalizzare», spiega Miceli.Il problema poi, secondo Umberto Costamagna, fino a poche settimane fa numero uno di Assocontact, «è che questo comparto ha caratteristiche troppo diverse rispetto al resto dell’industria, e per questa ragione, sarebbero necessari strumenti di monitoraggio dedicati».Con questo presupposto le organizzazioni sindacali hanno richiesto un tavolo istituzionale con i ministri del Welfare Sacconi e dello Sviluppo economico Scajola, per la creazione di un Osservatorio interministeriale. «Perché – ricorda Moretti – un’impresa che non fa margini non ha futuro. E nemmeno i suoi dipendenti. Anche se regolarizzati».
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