martedì 9 luglio 2019
Paolo Gozzo, 54 anni, dal mondo della moda ai poveri in Romania: «Una suora mi mandò a chiamare e io, che non ero credente, mi licenziai e partii». Da quel giorno ha aiutato 2.500 bambini soli
I bambini rumeni nel Centro Aisi di Campina

I bambini rumeni nel Centro Aisi di Campina

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«Quando vedo un bambino allegro mi dico: questo non ha bisogno di me. È dura dover scegliere tra chi aiutare e chi lasciare per strada, ma vedere un bambino triste è qualcosa di innaturale, non lo puoi sopportare. È con questo criterio che negli anni ho accolto centinaia di piccoli insegnando loro a leggere e scrivere, poi loro lo hanno insegnato ai genitori, che fino a quel giorno avevano firmato con una croce». Paolo Gozzo, 54 anni, veneto, in passato commerciante di articoli sportivi senza troppi sogni né velleità umanitarie, da un giorno all’altro si è trovato catapultato nelle periferie della Romania alla ricerca dei più poveri tra i poveri, tra case fatiscenti fatte di lamiera e cartone. «Prima il pensiero di Dio era lontano mille miglia da me né mi erano mai interessati i bambini, mica ero un maestro! Eppure oggi questa è la mia vita».

Gli brillano gli occhi mentre, tornato per qualche giorno in patria alla ricerca di fondi nella generosità veneta, ci racconta la sua 'chiamata', in senso letterale: «Era il 2000 quando suor Pura Pagani, una religiosa molto famosa a Verona morta nel 2001, mi mandò a chiamare. La coda era tale che si doveva prendere il numero per entrare, ricordo che avevo il 33. Non sapevo chi fosse, ma quando mi vide mi disse: 'La stavo aspettando'. Le dissi subito che avevo la mia vita e non mi interessava fare volontariato, lavoravo nella moda, giravo molto e frequentavo gente famosa, dunque ero più che soddisfatto. Lei non batté ciglio, mi disse solo che sarei andato a Medjugorje per curarmi dei bambini orfani. Ovviamente non ne avevo la minima intenzione». E ovviamente ci andò.

«Ci passai tutto il mese di ferie e quando tornai non parlavo d’altro, amici e familiari mi accusavano di aver subìto il lavaggio del cervello e li capisco: anch’io prima lo avrei detto di altri... Il fatto è che non ero più lo stesso, nell’orfanotrofio c’erano cento bambini reduci di guerra curati da due suore e tre volontari (i combattimenti erano finiti nel 1995) e vederli ogni sera recitare il Rosario per il Papa mi aveva colpito. Parlavano tutti italiano perché molti volontari venivano dal nostro Paese. Io sentii il desiderio bruciante di andare in missione, non sapevo dove, ovunque andava bene». Ma si trattava di lasciare tutto, il lavoro, gli agi, una vita normale. «A tutti dicevo: se venite con me sappiate che non ci sono garanzie né un salario, si vive di Provvidenza. E così persi anche la fidanzata».

Il 31 dicembre del 2000 Paolo Gozzo si licenziò e subito incontrò mille difficoltà, come càpita a chi getta il cuore oltre l’ostacolo. Fu di nuovo suor Pura a profetizzare: «Tranquillo, ora andrai in Albania, poi finirai in Romania». Per caso quella sera sentì parlare dell’Associazione Betania, gli dissero anche che due giorni dopo sarebbe partita una nave per l’Albania. «Mi imbarcai. Alla Casa Betania di Bubq, vera oasi di pace per i bambini poverissimi, rimasi quasi tre anni, il tempo per imparare ». Poi finalmente l’approdo definitivo in Romania, a Câmpina, ai piedi delle Alpi Transilvaniche, chiamato dalla Caritas di Vicenza insieme a quella di Bucarest. Ed è lì che l’ex commerciante, senza mai consacrarsi («i miei genitori avevano sofferto molto la mia scelta, avevo il dovere di tornare di tanto in tanto a casa»), si mise in cerca dei più miseri tra i miseri, che a quell’epoca in Romania erano i bambini rom. Vent’anni fa, per scaldarsi accanto alle condotte di aria calda, vivevano ancora nelle fognature, «piccoli accattoni che non andavano a scuola. Grazie a donatori italiani conosciuti a Medjugorje (gli amici storici erano spariti) presi in affitto un magazzino e creai una specie di doposcuola senza la scuola! Aiutato da studenti delle superiori, insegnavo a leggere e scrivere, li facevo giocare, li portavo in gita o a Messa».

Negli anni, dopo i rom la povertà prese a ghermire anche i bambini rumeni, figli di genitori emigrati in cerca di fortuna e rimasti soli, e Gozzo combatteva per tutti, contro la burocrazia, gli sfratti, l’obbligo di accogliere a turni 60 bambini in stanze adatte a dieci... Finché il Comune di Câmpina non si accorse di quell’italiano strano e lo convocò in consiglio per ascoltare la sua voce: «Da quel giorno fui, e sono tuttora, l’unico straniero cui sia stata concessa gratuitamente una delle enormi strutture che l’ex dittatore Ceausescu aveva costruito nelle città per i giovani sportivi, dotate di hotel, teatro, palestre... Vi ho aperto la 'Casâ Tineretului', 'Casa del Giovane', il centro diurno dove attualmente ospito 70 bambini dai 5 anni in su, e l’associazione Aisi ('Sacro Cuore di Gesù' in rumeno)».

Intanto però l’asticella della povertà e della tristezza si era nuovamente spostata e oggi chi davvero non ha nulla sono gli orfani. Per loro Paolo Gozzo sta costruendo una casa-famiglia «con una figura materna presente 24 ore al giorno e il mio controllo diretto, perché in Romania non è come in Italia dove c’è tanto volontariato, qui i soldi attirano troppo...». I lavori partiranno la settimana prossima, e anche se mancano tuttora all’appello 30mila euro il missionario non si preoccupa: «La Provvidenza non tradisce mai». È con questa certezza che ha formato già 2.500 bambini «in un Paese in cui si paga tutto, anche la sanità. Poi li perdi, non li vedi più, costretti come sono ad aiutare genitori che guadagnano 300 euro al mese o magari ad emigrare, ma almeno so di aver dato loro le ali per farcela ».

Dei 2.500 volti – spesso tristi – sceglie di ricordare il brillio negli occhi di 30 bambini portati al ristorante per la prima volta nella loro vita; non avevano mai visto una tavola imbandita: «Non avevo molti soldi e potevo ordinare ben poco, quando la cameriera venne a dire che, se non ci offendevamo, un signore voleva offrire frutta e cioccolato per tutti. Non scorderò mai quella gioia incontenibile. Sono quelli gli occhi che vorrei vedere in tutti i bambini, quegli occhi sono il loro diritto». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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