domenica 5 aprile 2020
Strumenti di diagnosi e protezione, ricerche e scoperte controverse, indicazioni e regole: sei risposte su quello che sta succedendo
Cosa sappiamo dopo 45 giorni di Covid-19
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1. A chi viene fatto il tampone?

I tamponi, cioè gli unici test in grado attualmente di dire con certezza se una persona è stata contagiata o meno da Sars-CoV-2, sono stati oggetto di dibattito (e di polemica) fin dall’inizio dell’epidemia italiana di coronavirus. Che cosa siano, ormai l’abbiamo imparato: si tratta di cotton fioc allungati che vengono inseriti in bocca e che raggiungono la faringe, da cui viene prelevato un certo quantitativo di muco o di saliva. Per il prelievo servono pochi secondi, per l’esito un’attesa tra le 3 e le 6 ore (per i test rapidi appena 90 minuti). All’inizio della crisi – il 20 febbraio scorso, a Codogno – i tamponi sono stati fatti a tutti i “contatti stretti” dei contagiati, anche chi non presentava alcun sintomo. Ci si trovava davanti a un focolaio distinto e contenuto, si sperava di poterlo contenere. Il metodo, poi, è cambiato seguendo le indicazioni del Comitato tecnico scientifico istituito a livello nazionale e dell’Oms a livello internazionale: tamponi solo ai sintomatici, con l’obiettivo di ragionare solo sul numero dei malati effettivi. Due giorni fa la nuova circolare del ministero della Salute: i tamponi d’ora in poi si faranno ai sintomatici, ai loro contatti a rischio, a tutti coloro che sono in ospedale o in una Rsa con una infezione respiratoria. Non solo, il test va fatto anche a tutti gli operatori sanitari esposti, gli operatori di servizi pubblici essenziali anche con sintomi lievi, i lavoratori di Rsa asintomatici, le persone fragili a causa di patologie croniche.

2. Le mascherine servono?

È un altro degli oggetti a cui ci siamo abituati fin dall’inizio dell’epidemia, e su cui da sempre comunità scientifica e opinione pubblica sono tuttavia divise: le mascherine prevengono il contagio da Covid-19? Negli ospedali, ovviamente, sì. E lì, dove servono più che altrove, fanno anche più fatica ad arrivare. Colpa della lentezza della burocrazia, con le certificazioni per la riconversione delle aziende nazionali e poi per la conformità dei prodotti bloccate in interminabili code davanti agli uffici di competenza. Col risultato che proprio fra gli operatori sanitari – medici e infermieri – i contagi sono aumentati a dismisura. Le mascherine che servono in prima linea sono le Ffp2 e le Ffp3 (le due “f” stanno per “filtranti facciali”), capaci di bloccare fino al 98% degli agenti patogeni. Devono rispettare una normativa rigorosa, con l’obbligo di marcatura CE. Proteggono chi le indossa ma non viceversa, perché l’esalazione non è filtrata. Le mascherine di tipo chirurgico, invece, proteggono gli altri dalle secrezioni di chi le indossa, ma non viceversa. Sono quelle monouso che vediamo indossate dalla gente comune e che vengono vendute in farmacia. Pur non filtrando gli agenti virali, costituiscono comunque una barriera e ci impediscono di toccare con le mani contaminate bocca e naso.

3. Come circola il virus?

Non solo le grandi gocce che si liberano con tosse e starnuti: le particelle di coronavirus potrebbero viaggiare nell’aria anche sulle gocce molto più piccole e leggere che si emettono respirando e parlando e che sono in grado di raggiungere distanze ben più ampie di un metro. A riaccendere un altro dibattito scientifico che prosegue da settimane è stata l’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti. Seguita a ruota dall’Organizzazione mondiale della sanità, che ha annunciato la possibilità di rivedere le raccomandazioni sul distanziamento e l’uso delle mascherine. Per l’Istituto Superiore di Sanità italiano non ci sono al momento evidenze che il nuovo coronavirus circoli nell’aria, specie al di fuori di ambienti chiusi (nelle stanze degli ospedali è probabile che possa accadere): le principali vie di diffusione del virus sono quelle per droplet e per contatto.

4. Con il caldo andrà meglio?

È un’altra questione molto dibattuta, su cui gli scienziati non hanno voluto esprimersi soprattutto per non alimentare l’“allergia” al lockdown, tuttavia necessario. Con la bella stagione, e l’arrivo del caldo, il coronavirus allenterà la sua presa? Secondo due ricercatori italiani, Francesco Ficetola e Diego Rubolini dell’Università Statale di Milano – che hanno pubblicato la loro ricerca proprio questa settimana – sì. Il coronovirus predilige il freddo secco, mentre si diffonde meno velocemente nei climi molto caldi e umidi. Lo studio, che ha analizzato su scala globale le relazioni tra casi di Covid-19 e condizioni climatiche, ha già alzato il livello d’allerta per vaste regioni dell’emisfero sud del mondo (tra cui Sudamerica, Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda), dove la pandemia potrebbe colpire più duramente nei prossimi mesi. Il punto, ora, è capire se l’inizio della bella stagione possa rallentarla qui. Chi pensa il contrario, da sempre, è la virologa Ilaria Capua: «La Sars è scomparsa d’estate non per il caldo, ma per il contenimento. Lo stesso succederà in questo caso».

5. Quando si può uscire di casa?

Le regole del governo non sono cambiate, dall’11 marzo ormai: si deve evitare di uscire di casa. E si deve evitarlo perché il coronavirus – senza misure di contenimento – viaggia attraverso le persone a un ritmo esponenziale di contagio, e se troppe persone si ammalano tutte insieme il sistema sanitario salta. Il lockdown, tuttavia, prevede eccezioni: si può uscire ovviamente per andare al lavoro (per le attività essenziali che non si sono fermate), per ragioni di salute o per altre necessità, quali, per esempio, l’acquisto di beni necessari. Si deve comunque essere in grado di provarlo mediante l’autodichiarazione apposita, la cui veridicità sarà oggetto di controlli successivi (e la non veridicità costituisce reato). È comunque consigliato lavorare a distanza, ove possibile, o prendere ferie o congedi. Un ampio dibattito s’è innescato sulla passeggiata dei bambini: anche questa resta possibile ove necessaria, come nel caso dei piccoli affetti da autismo o da disabilità. E comunque vicino a casa, come per lo jogging.

6. C’è una app mappacontagi?

Mentre il governo è ancora al lavoro con una task force composta da ben 74 esperti sulla possibilità di utilizzare una tecnologia per mappare i contagi e gli spostamenti delle persone nella “fase 2”, cioè nel post- epidemia, le Regioni si sono mosse più in fretta e hanno già realizzato delle applicazioni da scaricare sullo smartphone che permettono di controllare le condizioni di salute delle persone e creare le prime proiezioni statistiche sugli asintomatici. La più scaricata è quella della Lombardia (si chiama “allerta-Lom”), i cui questionari sono stati già compilati da mezzo milione di persone. Ma anche il Lazio si è mosso con “Lazio Doctor per Covid” (la Asl 3 di Roma è stata pioniera con “ADLife Covid-19”) e la Sicilia con “Sicilia si cura”.A cura di Viviana Daloiso

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