venerdì 3 maggio 2019
L’allarme di De Paolis, presidente della Società italiana di chirurgia (Sic): con appena 400 ingressi di specialisti all’anno su 600 ospedali, il sistema è destinato a implodere
«Così la sanità italiana rischia di rimanere senza chirurghi»
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L’allarme per la carenza di medici che investe da mesi il nostro Paese diventa una vera e propria emergenza se si guarda al settore dei chirurghi. Seimila camici bianchi in tutto il Paese (due terzi dei quali di età compresa tra i 50 e i 65 anni), per 600 strutture ospedaliere, con “iniezioni” di appena 400 nuovi specialisti all’anno. Troppo pochi, con evidenza, per coprire la voragine pronta ad aprirsi con i pensionamenti dei prossimi mesi, agevolati anche da “quota 100”. «Per capire concretamente la situazione basta fare l’esempio delle Molinette di Torino – spiega Paolo De Paolis, presidente delle Società italiana di chirurgia (Sic) e primario del reparto di Chirurgia d’urgenza del grande ospedale piemontese –. Qui già ad oggi un terzo dei chirurghi presenti in reparto sono specializzandi (medici cioè che stanno ancora completando la scuola di specializzazione interna all’ospedale)». Per l’esattezza, dei 3 chirurghi sempre presenti in reparto uno deve ancore terminare la specializzazione. Ancora: al concorso per chirurghi effettuato sempre alle Molinette ai primi di aprile (una posizione aperta), si sono presentati in 70, di cui solo 40 hanno poi effettivamente affrontato l’esame. «L’ultima volta che era stato fatto il concorso erano stati 150» continua De Paolis. Che non usa mezzi termini: se si vuole mettere il Paese al riparo da un vero e proprio black-out di interventi specialistici nei prossimi anni «bisogna intervenire subito».

Professore, quali sono le specialità più a rischio in questo momento?
Mancano già, drammaticamente, urgentisti. Stiamo parlando dei chirurghi che operano nei Pronto soccorso, reparti come evidente di vitale importanza per le esigenze della popolazione.

Ma da dove si deve cominciare per invertire la rotta?
Senza dubbio dall’equiparazione del numero di laureati e quello dei posti nelle scuole di specialità. Di questa forbice che sta inghiottendo la sanità italiana negli ultimi mesi si è parlato fino allo sfinimento: a fronte di quasi 10mila laureati in medicina ogni anno ci sono appena 6mila posti di specialità. Tra chi vi accede, molti non finiscono, molti finiscono e se ne vanno all’estero. Germania, Inghilterra, Svizzera e poi i Paesi del Nord Europa attraggono i nostri neospecialisti con condizioni economiche migliori, con normative più chiare e con pochi contenziosi legali.

Quanto pesa la fuga dei nostri giovani specialisti all’estero?
Tra il 10 e il 15%. E considerando i numeri già esigui del bacino di cui parliamo – sono appena 400 i nuovi chirurghi che escono dalle scuole di specialità ogni anno a fronte di 600 strutture ospedaliere in Italia –, la cifra è davvero preoccupante. Anche evitare che i nostri giovani medici se ne vadano è un punto su cui intervenire subito, a cominciare dal rafforzamento della rete ospedali-scuole di specializzazioneterritorio. Oggi chi esce da queste scuole – anni in cui i medici lavorano in prima linea negli ospedali per fare esperienza – si trova spesso innanzi a un baratro, in attesa di un concorso. E spesso persino questi concorsi sono organizzati male, senza alcuna programmazione sulle esigenze territoriali: faccio di nuovo l’esempio del Piemonte, e del recente concorso delle Molinette a Torino. Quello stesso giorno era stato fissato anche un concorso ad Asti. Alcuni medici non sapevano dove andare, erano convinti si trattasse dello stesso esame.

E poi alcune Regioni ricorrono ai medici pensionati...
Personalmente lo trovo aberrante. Purtroppo dimostra bene come sia necessario ad ogni livello – regionale e centrale – ripensare a a una programmazione razionale e calibrata degli organici, monitorando le esigenze dei territori, i flussi in uscita e in entrata (in passato c’è stato un andamento anomalo delle assunzioni, i buchi da coprire sono variabili). A cominciare dai piccoli ospedali, dove chiaramente l’emergenza che stiamo vivendo si fa sentire in maniera devastante.

Che tempi abbiamo?
Non abbiamo tempo. Se si mettessero in campo subito, a partire da domani, almeno le azioni a cui ho fatto riferimento, forse in 4 o 5 anni potremmo tornare a un pareggio. La sensazione però è che tutto sia fermo. L’unica nota positiva in questo panorama sconfortante è stata l’approvazione della legge sulla donazione del corpo post mortem nei giorni scorsi. Una legge che finalmente permetterà ai nostri giovani specializzandi di non dover più andare all’estero per sperimentare interventi di particolare difficoltà, ma anche nuove tecniche e naturalmente di utilizzare gli ultimi ritrovati in campo tecnologico.

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