lunedì 19 gennaio 2009
La Chiesa cattolica ha celebrato ieri la 95ª «Giornata mondiale del migrante e del rifugiato», con il tema «San Paolo migrante, Apostolo delle genti. Non più stranieri né ospiti ma della famiglia di Dio». Dalle storie di alcuni immigrati la convivenza favorita dal cattolicesimo.
COMMENTA E CONDIVIDI
La Chiesa cattolica ha celebrato ieri la 95ª «Giornata mondiale del migrante e del rifugiato». In Italia – prendendo spunto dal messaggio di Benedetto XVI per la «Giornata» – è stato scelto il tema «San Paolo migrante, Apostolo delle genti. Non più stranieri né ospiti ma della famiglia di Dio», con riferimento a un passo della Lettera agli Efesini (2,19). La «Giornata» è celebrata in tutte le diocesi e le parrocchie; ogni anno, tuttavia, viene designata una regione quale sede delle iniziative di respiro nazionale. Per l’edizione 2009 è stata scelta la Toscana. Dalle storie di alcuni immigrati la convivenza favorita dal cattolicesimo.  Peruviani a Milano L'orgoglio del «mayordomo» Luis Gomez Sfilano in diecimila nel centro di Milano, tra la curiosità e lo stupore dei passanti poco abituati a vedere tanta gente in processione dietro un’immagine sacra, in una città sempre più secolarizzata e indifferente. Accade ogni anno nell’ultima domenica di ottobre, quando la comunità peruviana, a cui si uniscono molti altri latinoamericani, organizza la festa del Señor de los milagros (il Signore dei miracoli), riproducendo in emigrazione il medesimo gesto compiuto negli stessi giorni a Lima da oltre un milione di persone. È una tradizione che risale al 1867, quando per la prima volta veniva portata in processione nelle vie della capitale peruviana la copia di un dipinto raffigurante Gesù crocifisso. Quell’immagine, ritrovata intatta tra le macerie del terremoto che nel 1655 aveva devastato la città, era da due secoli oggetto di devozione, meta di pellegrinaggi, «fonte» di guarigioni miracolose. E oggi decine di copie sono custodite nelle città in cui ha messo radici l’emigrazione peruviana, che ne ha fatto l’icona di riferimento per coloro che hanno lasciato la loro terra in cerca di miglior vita. In Italia le comunità cattoliche peruviane, che continuano ad aumentare e contano più di 70mila persone, promuovono la processione in un numero crescente di città. Nel 1996 a Milano è stata fondata la hermandad del Señor de los milagros, una confraternita che cura in ogni dettaglio la processione annuale ed è diventata punto di riferimento per l’educazione alla fede della comunità con iniziative di formazione, di catechesi e di festa durante tutto l’anno. «Ci aiutiamo perché la nostra religiosità non si riduca a puro formalismo o a perpetuare meccanicamente una tradizione, ma diventi sempre di più l’alimento di tutta la vita, anche in condizioni difficili come quelle che si vivono in emigrazione». Parla con modestia e insieme con orgoglio Luis Gomez, mayordomo della Confraternita, in Italia dal 1993 con la moglie, due figli e la suocera. Facendo tesoro dei consigli e dell’amicizia di don Giancarlo Quadri, responsabile della pastorale dei migranti per la diocesi ambrosiana, i "confratelli" peruviani hanno lentamente trasformato la loro devozione in una linfa che sta rivitalizzando la comunità (30mila a Milano e provincia). E dall’anno scorso la loro hermandad è entrata a far parte dell’antica famiglia delle confraternite ambrosiane: un segno dell’incontro fecondo che si può realizzare nella Chiesa, dove nessuno è straniero e la specificità di una tradizione diventa occasione di arricchimento per tutti. «Abbiamo molto da imparare e da offrire, e l’esperienza della Confraternita è un grande aiuto per non restare soli – dice il mayordomo Gomez –. Cinque secoli fa gli europei ci hanno fatto conoscere il cristianesimo portando la croce nelle nostre terre, oggi noi l’abbiamo riportata in Europa con la nostra tradizione e la nostra cultura». Un piccolo-grande esempio di come la fede costruisce convivenza.Filippini a RomaUn popolo diffuso in 45 comunitàLa sua preoccupazione più grande? I tre nipoti oltreoceano, e le seconde generazioni dei giovani filippini che vivono nella capitale, in bilico tra studio e lavoro, alla ricerca faticosa di una nuova identità senza rinnegare le loro origini. Difficile vivere «in equilibrio» tra Manila e Roma; eppure, Susan Gutierrez, 55 anni, lo fa da oltre vent’anni: il 4 giugno 1987 è partita da Cainta Rizal, vicino a Manila, con un volo diretto in Germania, per arrivare in Italia in pullman con un visto turistico in tasca, appoggiandosi inizialmente presso una cugina. A casa aveva lasciato marito e tre figli (il maschio, Jarylle Sean, aveva 7 anni, mentre le sorelline Kathrina e Sheilajoy dovevano compiere 10 e 13 anni): il suo lavoro da infermiera e l’impiego del coniuge presso il governo non bastavano per farli studiare e per coprire le spese del mutuo.Così Susy (tutti la chiamano così) comincia una nuova esistenza da colf, lontana dagli affetti. A vederla, il sorriso sempre sulle labbra e le mani rovinate dai detersivi, non si intercettano immediatamente i dolori che l’hanno attraversata: nel ’92, la morte precoce del marito per un infarto, la lontananza dei figli (una di loro, Kathrina, l’ha raggiunta dieci anni fa), dieci o dodici ore di lavoro quotidiano. Durante il quale, però, incontra donne italiane che l’aiutano a ottenere il permesso di soggiorno. A sostenerla, una fede solida, vissuta accanto ai suoi connazionali partecipando alla Messa domenicale, fino a diventare, nel ’95, coordinatrice della comunità che si riunisce per pregare e condividere il pranzo presso la parrocchia di San Giovanni Evangelista, nel quartiere di Spinaceto. «Siamo quasi in 60: famiglie intere, tanti giovani che si incontrano con i coetanei italiani e una suora filippina. Quando possiamo, andiamo in pellegrinaggio presso qualche santuario. Ci piacerebbe partire per Lourdes, ma non abbiamo le possibilità economiche per farlo», racconta Susy, che per alcuni anni è stata anche membro del consiglio pastorale parrocchiale. Quella di Spinaceto è solo una delle quarantacinque comunità che si incontrano regolarmente nella capitale; tutti fanno riferimento alla cappellania di Santa Pudenziana, nei pressi di Santa Maria Maggiore, «missione con cura d’anime» per i migranti cattolici filippini eretta nel ’91 da papa Wojtyla. Il Sentro pilipino di via Urbana 160 – in cui sono attivi diversi "ministeri" e settori: dalla famiglia ai giovani, dalla musica allo sport, dal lavoro alla comunicazione; sito web: www.sentropilipinorome.org – è il principale ritrovo per i vari centri pastorali che animano una porzione significativa degli oltre 40mila filippini residenti a Roma. Che è «capitale» anche per loro: in Italia la comunità conta 96mila persone, più della metà sono donne.Ghanesi a VeronaLa Messa con Alex e la corale di San ValentinoNon era stato un africano, sant’Agostino, a scrivere che «chi canta prega due volte?». Alexandre Amoha l’ha preso in parola. Questo operaio ghanese, che da 11 anni abita a Verona, è un grande cultore del canto religioso: oggi dirige il "San Valentino Choir", la corale della comunità cattolica ghanese della provincia scaligera. «Siamo nati 6 anni fa qui a Verona per cantare a Gesù», racconta Alex, come lo chiamano i colleghi dell’officina meccanica in cui lavora nella zona industriale di Verona. Dove non disdegna di far sentire la sua possente voce con pezzi spiritual come Jesus is good o il Gloria mentre traffica con muletto e carrelli. «Sono stati i miei amici Clement, Antony e Francis ad iniziare il coro a San Valentino, la chiesetta di Bussolengo (paesotto alle porte di Verona, ndr) dove ci troviamo ogni domenica per la nostra Messa». Alex si è subito inserito bene tra i cattolici provenienti dal suo Paese, anche grazie alla passione del canto: «Già quando ero in Ghana facevo il direttore della corale parrocchiale di Santa Teresa, la comunità cui appartenevo a Koforidua, mia città natale. Non ho fatto particolari studi per imparare a cantare, ho soprattutto ascoltato la musica». Che cosa c’è al fondo della sua passione per il canto? Alexandre lo spiega con parole semplici: «Ho sempre voluto cantare per unire le persone e insegnare loro quanto Dio è grande. Per noi africani, poi, cantare è molto importante, perché la liturgia eucaristica della domenica è fondamentale, ma una Messa non è "vera" se non ha i canti. E dovrebbe essere così non solo per noi africani, ma per i cattolici di tutto il mondo. Il canto fa crescere la fede di ciascuno». E cantare in stile africano ha anche un altro messaggio, secondo il signor Amoha: «In questo modo anche gli italiani vedono come noi cattolici africani lodiamo Dio. Tutti si congratulano con il nostro coro, a loro piace come cantiamo: l’anno scorso cinque coppie di fidanzati italiani ci hanno chiesto di andare ad accompagnare il loro matrimonio. L’abbiamo fatto volentieri e con orgoglio». Da quest’anno i ghanesi cattolici di Verona, come pure i nigeriani, si incontrano a Ponton, parrocchia ai piedi del Monte Baldo: «Animiamo con i nostri canti, in italiano e in inglese, la Messa parrocchiale delle 9.30. La gente di Ponton è contenta che vi sia la corale di noi ghanesi ad accompagnare la liturgia». Ogni sabato sera, dalle 19.30 alle 22, la corale San Valentino fa le sue prove. E da qualche anno a questa parte il 6 gennaio, quando in diocesi si celebra in Duomo l’Epifania dei popoli (la solenne celebrazione con tutte le comunità di emigrati cattolici riuniti insieme al vescovo), Alex e i suoi coristi animano la celebrazione. Tutti i venerdì sera, poi, i cattolici del Ghana hanno il loro incontro di «Biblical studies»: «È molto importante per noi imparare a conoscere la Bibbia e pregare per chi è ammalato, chi è soli e chi non ha i documenti o il lavoro».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: