giovedì 6 aprile 2017
Numeri alla mano, non c’è alcun "business della carità" nel settore degli aiuti allo sviluppo. Le spese per il personale sono meno del 5% del budget
Cooperazione: i conti degli aiuti che tornano
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In fondo è un noto refrain: gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo in realtà non servirebbero a sollevare dalla povertà, ma a mantenere strutture e giustificare burocrazie del Nord. «Otto euro su dieci per i Paesi poveri vanno sprecati », titolava il 30 gennaio in prima pagina La Stampa. Un «business della carità » che brucerebbe così l’80% dei fondi in «stipendi e corruzione», affermava poi il titolo dell’inchiesta nelle pagine interne.

Una stilettata nel fianco all’intero sistema della cooperazione internazionale italiana che sta navigando fra i marosi di una riforma – avviata con la legge 125 del 2014 – che in gran parte deve ancora essere resa operativa. «Guardiamoci dalle semplificazioni: la cooperazione funziona e cambia la vita delle persone», ha replicato pochi giorni dopo Laura Frigenti, direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, istituita nel gennaio del 2016 in base alla menzionata legge, come braccio operativo della Farnesina – ribattezzata per l’occasione in «Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale» – che da sempre ha una apposita Direzione generale dedicata alla Cooperazione allo sviluppo e un viceministro, ora Mario Giro, con specifica delega. Per Frigenti quel titolo è un «colpo di penna» sensazionalistico che non rende ragione di anni di sforzi e di risultati effettivi: «Il dimezzamento delle persone che versano in condizione di povertà estrema, il raddoppio delle persone che hanno accesso all’istruzione, la riduzione del 45% della mortalità materna o i due miliardi di persone in più che hanno a disposizione acqua potabile», precisa.

Quanto al business della carità, l’Agenzia con un budget di circa 500 milioni, «per le spese di struttura e di personale non arriva al 5%», mentre la media internazionale non scende sotto il 7%. Questo mentre nei progetti delle ong si stanno inserendo «indici di valutazione di impatto sociale ed ambientale» per monitorarne l’effettivo impatto. Una difesa d’ufficio da parte di una Agenzia che nel suo primo anno di vita ha dato «segnali ancora troppo deboli», osservano alcuni dirigenti delle ong. Un modo diplomatico per affermare che l’Agenzia di fatto non è ancora operativa. Legittime attese di un “Sistema Italia” della cooperazione che si sta dotando di una cabina di regia adeguata ai tempi. Un modello che, per nostra tradizione, non vuole essere quello dei progetti faraonici: la tedesca Giz (Società per la cooperazione internazionale) conta su 70mila dipendenti nel mondo. Organico da multinazionale, con struttura e policy aziendali. L’Agenzia italiana per la cooperazione, a regime, conterà al massimo 450 persone. Una centrale operativa per un 'Sistema Italia' che – in base al testo di legge – comprende le amministrazioni dello stato, le università, le regioni e gli enti locali, come pure le «organizzazioni della società civile» senza finalità di lucro», nonché «soggetti con finalità di lucro» che aderiscano ad adeguati standard di «responsabilità sociale» e alle «clausole ambientali ».

Un varo complicato e con qualche evidente passo falso. Dopo aver reclutato nell’organico esperti della Direzione generale alla cooperazione e di altri ministeri, l’Agenzia deve ancora trovare 60 tecnici e due dirigenti generali: nuove assunzioni che per ragioni tecniche – che le ong chiedono di superare – potrà avvenire solo nel 2018. Intanto il Consiglio nazionale per la cooperazione, un parlamentino del settore, si è riunito sinora solo due volte e mai nel 2016, senza poter discutere le linee guida dell’anno. Ma come avviene, in questo interim, la cooperazione italiana? Il “Sistema Italia” in Burkina Faso – il Paese messo alla sbarra dalla Stampa come un esempio di mala cooperazione – è stato fotografato in un dossier Focsiv, la federazione delle ong cattoliche.

La mappatura dal 2009 al 2013 di circa 1.000 contratti ha individuato l’attività di Onlus (34%), ong (18%), congregazioni religiose (7%) e comuni (7%). Sul campione molto più ristretto (130 soggetti circa) che hanno fornito i dati del loro intervento, il 48% ha fatto investimenti fino a 50mila euro, mentre il 34% dei progetti si colloca in un intervallo che va tra i 100mila e un milione di euro. Nel campione il 21% di investimenti sono privati, il 14% di fondi da enti locali, un 5% dall’Unione Europea e un 3,5% dalla Farnesina. Un significativo spaccato, per quanto parziale, del Sistema Italia mentre gli stessi operatori chiedono alla Farnesina di «assumere un ruolo di necessario coordinamento e condivisione nel Paese».

Una piccola-media industria geniale ma che ora è chiamata a fare il salto dalla dimensione artigianale a quella di impresa sociale. Un approdo non scontato, e con la preoccupazione di salvaguardare specificità e professionalità dei mille attori in campo, esempio concreto di sussidiarietà. Preoccupazioni che il Forum del terzo settore ha recentemente espresso in una nota presentata alla direttrice dell’Agenzia. Un modello che, inevitabilmente, sarà passato al setaccio dai criteri di iscrizione all’elenco dei soggetti riconosciuti dall’Agenzia.

La novità è l’ingresso a pieno titolo fra gli interlocutori dell’Agenzia delle imprese provate. Un incontro fra profit e noprofit (si veda ad esempio la recente «Guida alla partnership» di fondazione Sodalitas) che potrebbe creare un nuovo modello di intervento. Una cooperazione che si prepara all’esame di maturità: «efficacia», «economicità», «unitarietà » e «trasparenza» e «sostenibilità» i criteri di base delle politiche di cooperazione, afferma la legge. Ma senza affrettati colpi di penna.

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