mercoledì 22 aprile 2020
5 cadaveri, 7 dispersi in mare: nello scaricabarile delle responsabilità, ecco tutto ciò che è accaduto nelle tragiche ore di mancati soccorsi tra Tripoli e La Valletta
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Migranti africani soccorsi al porto di Valletta, a Malta (aprile 2020)

Migranti africani soccorsi al porto di Valletta, a Malta (aprile 2020) - Reuters

Nell’affrettata ricostruzione ufficiale non c’è un solo tassello combaciante. La strage di migranti di Pasquetta è stata una gara a mentire, a scaricare responsabilità, a occultare omissioni e nascondere il ruolo della “flotta fantasma” dei network criminali libico-maltesi, stavolta adoperata per un respingimento di massa andato male. Dopo quasi cinque giorni abbandonati alla deriva nonostante le ripetute richieste di soccorso, 5 migranti sono arrivati cadavere a Tripoli, 7 sono dispersi in mare e i 51 superstiti, tra cui una bimba di 47 giorni, appena dopo lo sbarco in Libia sono stati deportati nella prigione di Tarik AL Sikka, un buco nero dove neanche l’Onu riesce a mettere piede.

Doveva avvenire tutto di notte, al buio, senza testimoni. Ma le controinchieste di giornalisti e organizzazioni umanitarie stanno rivelando quello che Malta e l’Europa vorrebbero non si vedesse.

A operazione era conclusa da Varsavia parte l’ordine di nascondere le rotte degli aerei dell’agenzia europea per la protezione dei confini. Da anni i giornalisti che si occupano delle operazioni in mare raccoglievano i tracciati dei voli di Frontex sul Canale di Sicilia, registrati dai principali portali dedicati al traffico aereo.

Quando la notizia del possibile respingimento viene lanciata da testate come Avvenire e ribadita da organizzazioni come Alarm Phone, adombrando l’ipotesi di un coinvolgimento diretto di Frontex , improvvisamente spariscono i tracciati dei voli che fino a poche ore prima erano stati rilanciati dall’inviato di Radio Radicale, Sergio Scandura. I siti che potevano trasmetterli, infatti, hanno dovuto oscurare gli aerei europei su richiesta precisa richiesta basata sulle norme Ue.

Le ultime “scie” disponibili consegnano però una ricostruzione a cui Frontex non ha ancora risposto. Poco prima che i voli sparissero dai radar pubblici Scandura aveva elaborato una sovrapposizione del tracciato del velivolo “Eagle1”, della flotta di Frontex, incrociandolo con le posizioni Gps fornite da Alarm Phone e relative a tre gommoni partiti dalla Libia alla vigilia di Pasqua e al quarto che verrà poi individuato 5 giorni dopo il primo Sos. Come si vede nell’immagine “Eagle 1” si era diretto laddove si trovavano i gommoni, pattugliando a lungo l’area. Prima di rientrare a Catania, il velivolo sembra aver condotto una ricerca “a pettine” proprio dove poi è stato individuato il barcone che ha fatto registrate le 12 vittime.

A indicare la presenza e un ruolo attivo di aerei europei sulla scena non sono solo le Ong. In un comunicato ufficiale del 15 aprile, a proposito dei migranti alla deriva nella notte tra il 14 e il 15, il governo di Malta scrive: “L'Unione europea era a conoscenza dell'imbarcazione che si trovava nella zona di ricerca e salvataggio della Libia. L'Ue ha indirizzato i suoi velivoli nell'area, ma non ha inviato navi per trasbordare i migranti”.

Per quanto l’affermazione non risulti esaustiva (se Frontex o le forze armate europee hanno visto i mezzi in difficoltà, certamente avranno avvertito anche Malta), ad oggi da Bruxelles non è arrivata alcuna smentita né precisazione. Avvenire ha chiesto a Frontex e all’esecutivo maltese di chiarire le rispettive posizioni. Fino ad ora non abbiamo ottenuto alcuna risposta.

Sulla base delle testimonianze raccolte e dei dati verificati attraverso diverse fonti, anche tra le agenzie Onu in Libia, nella notte tra il 9 e il 10 aprile, un barcone con 63 persone, in gran parte eritrei e subsahariani, tra cui 7 donne di cui una incinta e tre bambini, dopo un lungo periodo di detenzione (una testimone ha riferito di essere stata prigioniera per quasi tre anni) sono stati caricati dai trafficanti su un gommone partito dalla spiaggia di Garabulli, circa 50 chilometri a Est di Tripoli, dopo avere atteso senza cibo per tre giorni sulla costa. Si tratta di una delle roccaforti dei trafficanti, e tra le aeree più pattugliate dalla cosiddetta Guardia costiera libica, che però in quei giorni si lascia sfuggire almeno 4 carichi di disgraziati.

Il giorno successivo, venerdì 10 aprile, Frontex individua tre gommoni nell’area di ricerca e soccorso (Sar) attribuita alla Libia. Tre giorni dopo l’Ansa riporta una nota di Frontex: “Nel rispetto delle procedure operative e delle leggi internazionali abbiamo immediatamente informato i Centri di Coordinamento e Soccorso Marittimo (Italia, Malta, Libia e Tunisia) fornendo le coordinate esatte delle imbarcazioni”. E’ la conferma: tutti sapevano. Nessuno però si muove.

La notte successiva, da uno dei barconi contattano Alarm Phone. Chiedono aiuto. Dicono che il gommone imbarca acqua e probabilmente non sanno neanche da che parte si stiano dirigendo. La posizione gps, trasmessa alle 01.52 li indicava in acque internazionali (33°41'47.7"N - 13°34'00.7"E) a una distanza approssimativa di circa 120 chilometri da Tripoli, 180 da Lampedusa, 200 da Malta. La direzione verso cui si spingono è però il Nord. Alarm Phone contatta le autorità competenti a Malta, in Italia e in Libia. Ma ancora una volta nessuno interviene. Neanche i libici, che pure sono stati equipaggiati e finanziati per catturare i migranti in mare. Nel corso delle ore successive gli attivisti della linea telefonica dedicata alle richieste di aiuto restano in contatto con le persone a bordo continuando a fornire alle autorità le nuove coordinate, in avvicinamento all’area di ricerca e soccorso maltese e a ridosso della Sar italiana.

Alle 9.20 di sabato 11 aprile Tripoli si chiama definitivamente fuori e ad Alarm Phone un ufficiale libico comunica che “la Guardia Costiera adesso effettua solo manovre di coordinamento a causa del COVID-19: non possiamo attuare alcun salvataggio ma siamo in contatto con Malta e con l’Italia”. Ma ancora una volta nessuna motovedetta di un Paese Ue si aggira nell’area. Forse il guardacoste di Tripoli ha mentito?

La domenica di Pasqua le nuove coordinate confermano che il gommone è entrato in area maltese (34° 29.947′ N - 013° 37.803′ E). Alle 14.05 l’ultima disperata richiesta di aiuto. https://youtu.be/-szmKjCuHIs.Poi, più nessun contatto.

L'SOS DISPERATO DAL BARCONE DISPERSO / AUDIO ESCLUSIVO

Quasi 36 ore dopo, in seguito alla pubblicazione dei drammatici sviluppi su numerosi media e grazie alle continue richieste di Alarm Phone con Sea Watch e Mediterranea, Italia e Malta avviano operazioni di sorveglianza aerea. Da Roma fonti della Guardia costiera italiana fanno sapere di avere difficoltà a interloquire con la forza navale de La Valletta, che non avrebbe fornito informazioni dettagliate.

Il 13 aprile, Lunedì di Pasquetta, Malta invia un messaggio di allerta Navtex ai naviganti “a tutte le navi che transitano nella zona” di sorvegliare l’area e avvertire le autorità nel caso entrassero in contatto visivo con i naufraghi, tuttavia precisando che La Valletta non avrebbe fornito un porto di sbarco.

Nella notte, però, il Navtex viene ritirato senza una spiegazione esaustiva: “Ci hanno solo detto - hanno poi riferito dalla Guardia costiera italiana - che non c’era più alcuna emergenza in mare, senza spiegare se c’era stato un soccorso e chi lo aveva operato”. Nonostante questo una motovedette da Lampedusa e velivoli italiani resteranno per alcune ore a pattugliare nel buio. Un tentativo ormai inutile perché nel frattempo i superstiti erano stati raccolti da un misterioso peschereccio senza che Malta comunicasse a Roma l’avvenuto salvataggio dei migranti.

Nel corso della notte tra lunedì e martedì, infatti, una nave mercantile, la portoghese Ivan (come si vede dal tracciato), aveva deviato la rotta avvistando a circa un miglio di distanza il barcone in pericolo, mentre nell’area il maltempo aveva fatto gonfiare il mare con onde fino a due metri.

Secondo i racconti riferiti dai sopravvissuti agli operatori umanitari presenti nel porto di Tripoli, tre migranti si sono tuffati in acqua per tentare di raggiungere a nuoto “una grande nave”, altri quattro, vedendo la Ivan allontanarsi si sono gettati tra le onde nella disperazione. Forse, sostengono i superstiti, anche per farla finita dopo lunghi giorni senza acqua né cibo e oramai senza più speranza.

“Abbiamo chiesto aiuto e fatto segni. Tre persone hanno provato a nuotare verso questa grande barca mentre iniziava ad allontanarsi. Sono annegati. Abbiamo fatto segni verso l'aereo con la luce dei telefoni - si legge in una delle testimonianze raccolte da Alarm Phone - e abbiamo sollevato il bambino per mostrare che eravamo in difficoltà. L'aereo ci ha visto di sicuro, perché ci ha illuminato con una luce rossa. Poco dopo un'altra barca è uscita dal nulla e ci è venuta a prendere”. Il cargo Ivan, infatti a causa del mare mosso e delle paratie troppo alte non avrebbe potuto tentare il salvataggio e sarebbe stato autorizzato da Malta ad allontanarsi proseguendo verso Genova.

Sulla scena, dunque, arriva un anonimo motopesca. Secondo la nota ufficiale di Malta sarebbe un vascello libico che in quel momento si trovava nell’area Sar maltese. Ad oggi, nonostante reiterate richieste, non conosciamo il nome e il codice internazionale Imo (una sorta di numero di targa) del peschereccio. Le uniche informazioni risalgono a un battello da pesca costruito in Giappone nel 1955 e poi dismesso dai registri navali.

Le immagini ottenute da Avvenire mostrano il peschereccio al suo arrivo a Tripoli. Lo scafo si presenta senza nome né altra indicazione, nessuna bandiera pare visibile. Malta non ha indicato il nome del comandante (che pure deve essere stato riportato nei registri delle comunicazioni della centrale di soccorso) e neanche informazioni sull’attività del motopesca, che deve sempre essere dichiarata al momento del contatto radio con le autorità marittime.

A bordo, come si vede dalle foto e come hanno confermato all’arrivo diversi testimoni sulla banchina libica, non ci sono reti né pescato, solo alcune boe di segnalazione.

Mercoledì 15 aprile gli operatori di Oim e Unhcr-Acnur giungono sul porto di Tripoli per attendere lo sbarco dei superstiti, cinque arriveranno cadavere dopo la lunga navigazione dalla Sar Maltese fino alla capitale libica, quando sarebbero bastate meno di due ore, da Malta o da Lampedusa, per un primo soccorso medico.

A Tripoli si scopre che i marinai avevano issano a bordo 56 persone. Al momento del soccorso notturno, due profughi sembrano completamente privi di sensi (ma dai rapporti non si deduce se fossero già morti oppure svenuti) altri tre inizialmente erano coscienti, ma stremati. Ma in Libia tutti e cinque arriveranno senza vita. Per questo Unhcr-Acnur ha ribadito che “tutti potevano essere salvati”.

Secondo Alarm Phone, Mediterranea e Sea Watch il soccorso “era noto alle autorità europee da sei giorni, in seguito all'avvistamento aereo da parte di una risorsa di Frontex il 10 aprile”. Si sarebbe dunque trattata di una nuova violazione delle norme internazionali (Convenzione SAR, 1979), perché “gli Stati sono ancora obbligati a garantire la sicurezza della vita in mare anche se l'evento si verifica al di fuori della loro area di competenza”, come indicano le Linee guida dell'Imo, l’Organizzazione marittima internazionale, sul trattamento delle persone soccorse in mare.

Malta, inoltre, si è assunta il coordinamento dell'evento SAR con il suo messaggio Navtex del 13 aprile, ma ha dichiarato che non avrebbe offerto ai sopravvissuti “Pos”, un “posto sicuro di sbarco”, avendo chiuso i porti a causa del Coronavirus. Per ammissione del governo maltese, il tardivo coordinamento del soccorso ha comunque comportato l’accompagnamento dei naufraghi in Libia, in un Paese dichiarato “non sicuro” dalle autorità internazionali, in violazione della Convenzione di Ginevra sui Diritti dell’Uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Un respingimento in piena regola.

A giorni dalle richieste di Avvenire, Frointex e il governo maltese non hanno ancora risposto. All’agenzia europea per i confini abbiamo chiesto se è vero, come sostiene La Valletta, che velivoli europei erano a conoscenza del caso e della posizione esatta del barcone in “distress”. Al governo di Malta abbiamo fra l’altro domandato maggiori informazioni sul “peschereccio fantasma”, i dettagli relativi alle comunicazioni e se l’Italia ha offerto o no collaborazione a La Valletta durante quei cinque giorni di Sos inascoltati.

Fino ad ora nessuno ha voluto rispondere. L’unica voce arrivata dopo la tragedia è quella di una sopravvissuta eritrea, riportata con gli altri nella prigione di Tarik al Sikka, da dove era scappata dopo tre anni di soprusi. Con altre sei donne è stata gettata nello sgabuzzino destinato a chi viene riacciuffato dopo la fuga. Una ragazza detenuta in un altro stanzone ha raccolto la sua testimonianza ed è riuscita a trasmetterla.

Eravamo disperati e quindi abbiamo cercato di attraversare il mare. È stato un viaggio inutile. Siamo stati rimandati in Libia senza che ci venisse detto nulla. Siamo tornati in Libia e siamo di nuovo rinchiusi a Sikka. Siamo tornati nel luogo in cui non abbiamo mai trovato speranza. Non abbiamo idea di cosa faremo. Cercare di attraversare di nuovo il mare sembra inutile perché ci abbiamo provato ed eravamo in mare per sette giorni senza cibo o acqua. La nostra gola era così secca che non avevamo altra scelta che bere acqua di mare".

QUI LA TESTIMONIANZA COMPLETA

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