giovedì 12 marzo 2015
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​«Così si attenta alla sacralità del sacramento». Si affida proprio al verbo “attentare” il presidente dell’Associazione canonistica italiana, Paolo Moneta, per commentare la pubblicazione dei contenuti di Confessioni sulle colonne del Quotidiano Nazionale. Già ordinario di diritto canonico all’Università di Pisa, il professore spiega che «accostarsi al sacramento della Riconciliazione fingendosi di essere un penitente e di aver commesso determinati peccati, per divulgare sui mass media quanto il confessore dice, è un delitto grave per la Chiesa». Lo ha stabilito Benedetto XVI aggiornando nel 2010 proprio i delicta graviora.«Sono delitti la cui competenza è riservata alla Congregazione per la dottrina della fede – afferma il canonista –. Il Codice di diritto canonico prevede che in genere i crimini passino al vaglio del vescovo diocesano attraverso il suo tribunale. Nel 2001 Giovanni Paolo II ha precisato una serie di fattispecie di particolare gravità contro la fede, i sacramenti e i costumi che sono sottoposti al giudizio del dicastero vaticano. Benedetto XVI ha riformato le disposizioni del predecessore per contrastare gli abusi sui minori e ha inserito fra i delitti gravi anche la divulgazione di quanto detto durante la Confessione attraverso i mezzi di comunicazione. Del resto era già accaduto che ci fossero state inchieste giornalistiche simili a quelle denunciate dal cardinale Carlo Caffarra. Paginate che erano state oggetto di indignazione e riprovazione da parte della comunità ecclesiale».Ma perché questa scelta di papa Ratzinger? «La Confessione – chiarisce Moneta – è un sacramento particolarmente delicato. Il credente apre il suo cuore di fronte al ministro della misericordia presentando anche i peccati più gravi per i quali si dichiara pentito e chiede di essere assolto. Tutto ciò presuppone un’intima fiducia che servizi giornalistici come quelli usciti in questi giorni violano e tradiscono. Giustamente la Chiesa tutela il sacramento della Riconciliazione guardando al sacerdote che è tenuto all’inviolabilità del sigillo sacramentale. Ma se un finto penitente usa strumentalmente la Confessione per altri fini compie un atto contrario alla Chiesa».Le norme prevedono che questo delitto sia punito con una pena “secondo la gravità del crimine”. «Spesso nella Chiesa – evidenzia il canonista – i reati sono a pena indeterminata: si lascia a chi giudicherà di stabilirla. In questo caso è la Congregazione a determinare la pena a seguito di accertamenti che possono essere delegati anche alla diocesi».Però Moneta tiene a precisare quali siano gli effetti di una pena canonica. «Essa ha un valore per chi è credente. Ad esempio un giornalista potrebbe anche essere scomunicato, ma non è detto che a lui tutto ciò importi». E nel caso della Confessione divulgata a mezzo stampa si può incorrere in una vasta gamma di pene. «La più grave è la scomunica, ossia la privazione di tutti i beni spirituali legati all’appartenenza alla Chiesa. Poi c’è l’interdetto. Si può anche disporre la decadenza da un ufficio ecclesiastico, infliggere penitenze o privazione di benefici di cui si è titolari. Si tratta, in ogni caso, di pene che hanno un significato essenzialmente spirituale».
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