mercoledì 15 febbraio 2023
L’Italia conta 7.901 municipi: troppi, se si pensa che il 70% ha meno di 5.000 abitanti e che sono a rischio molti servizi. Con le aggregazioni, però, si può migliorare l'efficienza amministrativa
Un piccolo comune montano in Abruzzo

Un piccolo comune montano in Abruzzo - Archivio/Lattanzi

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Non c’è dubbio, siamo ancora il Paese dei “campanili” e non sappiamo proprio rinunciare ai nostri piccoli Comuni. Perché, nonostante l’opportunità di ricorrere alle fusioni sfruttando gli incentivi statali, integrando e migliorando i servizi, e perseguendo una migliore efficienza amministrativa, conserviamo in Italia ben 7.901 città e paesi: addirittura 91 in più rispetto al 1951 ma in calo di 200 dal 2001 (quando erano 8.101). Significa che nel Belpaese si contano quasi 8.000 amministrazioni comunali, con altrettante giunte, consigli, polizie municipali, uffici locali, enti e servizi pubblici diversi, e, quindi, con un enorme carico di burocrazia, che potrebbe essere in gran parte smantellata grazie alle aggregazioni.

Ad addentrarsi nei numeri dei governi cittadini è la Fondazione Think Tank Nord Est che domani, al Senato, discuterà in un convegno il tema del rilancio delle fusioni. Per la stragrande maggioranza si tratta di piccoli centri: 5.529 (il 70% del totale) hanno meno di 5.000 abitanti, mentre 2.005 municipi hanno meno di 1.000 residenti (il 25%).

I piccoli Comuni si trovano soprattutto nelle aree alpine (coprono vaste zone del Nordovest, di Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) ed appenniniche (in particolare tra Abruzzo e Molise), ma sono presenti anche nelle basse pianure del Nord e in molte aree di Basilicata, Calabria e Sardegna. Il seppur minimo calo del numero dei Comuni è la conseguenza dei processi di fusione. In Italia ci sono stati 268 referendum in tal senso: poco più della metà sono stati approvati (54,5%), per un totale di 146 aggregazioni realizzate.

Il numero maggiore di consultazioni riguarda la Lombardia, con 61, ed una percentuale di successo del 54,1%; 48 i referendum tenutisi in Trentino, approvati nel 60,4% dei casi. In Toscana, Veneto ed Emilia Romagna (con rispettivamente 33, 31 e 27 consultazioni) la quota di successo è inferiore al 50%.

Ben altri gli esiti in Piemonte: su 27 referendum proposti, la percentuale di approvazione è arrivata all'85,2. Nel 2018 si è registrato il maggior numero di fusioni: 30 le consultazioni approvate, contro le 27 del 2015 e le 26 del 2013. Anni in cui, prima l’introduzione e poi il rafforzamento degli incentivi statali hanno stimolato le aggregazioni. Ma da quel momento questo processo si è di nuovo quasi del tutto arrestato. Visto che dal 2019 le fusioni sono state soltanto 5.

Eppure, sottolinea Think Tank Nord Est, l'inverno demografico sta colpendo in misura maggiore proprio i piccoli Comuni, sempre più in difficoltà nel garantire i servizi ai cittadini: il calo della popolazione è destinato ad intensificarsi nei prossimi anni, mettendo quindi a rischio la sostenibilità di tutte le funzioni gestite a livello locale. In questa prospettiva, la fusione è uno strumento che «permette di superare il sottodimensionamento degli enti locali».

«La fusione è un’opportunità a disposizione soprattutto dei piccoli centri - sostiene Antonio Ferrarelli, presidente della Fondazione - per ridefinire la propria identità in un ambito territoriale più ampio, all’interno del quale riuscire a rendere sostenibili i servizi alla popolazione e alle imprese. Con lo spopolamento - aggiunge - si stanno svuotando soprattutto i piccoli municipi, che possono però ridisegnare i propri confini decidendo di aggregarsi: il futuro delle comunità locali si costruisce in una logica di area vasta, anche accettando di rinunciare a parte della propria autonomia». La formazione di Comuni di maggiori dimensioni, conclude Ferrarelli, «consente infatti di migliorare l’efficienza amministrativa, liberando risorse per aumentare gli investimenti e realizzare progetti strategici a beneficio dei cittadini».

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