giovedì 28 aprile 2016
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ROMA «Su certi comportamenti dovrebbe essere la politica a pronunciare le sue sentenze, senza attendere quelle della magistratura». Giuseppe Acocella, docente di Teoria generale del diritto alla Federico II di Napoli, studia da decenni le contiguità fra criminalità e politica. È coordinatore dell’Osservatorio sulla legalità dell’Istituto di studi politici San Pio V e autore per Giappichelli del volume Materiali per una cultura della legalità. Fare politica in certe zone rende quasi inevitabile il contagio? Il vero nodo è l’autorefenzialità della classe politica. Come fosse un’oligarchia. Le intercettazioni rivelano gli arcana imperi - i segreti del potere - che, secondo l’oligarchia politica, se non hanno rilevanza penale, non dovrebbero averne di alcun tipo. Ma l’abuso di influenza, anche laddove non fosse reato, è un delitto politico. La sentenza dovrebbe emetterla la politica stessa... Invece si è pensato che la magistratura potesse togliere le castagne dal fuoco. Come se, sotto la soglia penale, tutti i comportamenti fossero leciti e il consenso si potesse procurare in ogni modo. È stata eliminata la soglia della morale politica e l’autonomia di giudizio della politica su questi comportamenti. Quest’area è rimasta senza protezione di fronte all’invadenza dei magistrati. E la magistratura è entrata a piene mani in questa zona grigia. Se si ritiene che l’abuso d’influenza sia il modo ordinario di agire, poi non ci si può lamentare se la magistratura si arroga il compito di dare anche giudizi politici. A volte neanche ci si accorge che questa modo di acquisire il consenso tracima nella contiguità con la camorra. E si alimenta il distacco dalla politica. In realtà questo distacco, più che combattuto, temo che venga perseguito per continuare a gestire il potere in modo oligarchico. E la nuova legge elettorale potrebbe peggiorare le cose. Qui, alle Regionali, la patologia nasce col voto di preferenza. Ma almeno l’introduzione della preferenza nell’Italicum avrebbe favorito la partecipazione. Lei analizza i rapporti fra criminalità e politica sin dai tempi di Giancarlo Siani. Che cosa è cambiato da allora? È aumentata la dipendenza delle autonomie e delle classi politiche locali dagli interessi nazionali, come il caso Basilicata dimostra e quello campano temo confermi. Il livello locale si preoccupa, troppo spesso, di acquisire il consenso senza porsi troppi problemi sul 'come'. Vengono alterati i rapporti con i cittadini, che contano sempre di meno. E la classe politica locale rischia di fare solo da 'segnaposto' di interessi decisi a livello centrale. Anche i presidenti di Regione sono stati ridimensionati. Favoriti, o meno, a seconda della loro maggiore o minore funzionalità a disegni decisi a livello centrale. Ha ragione allora Davigo ad accusare la politica di affarismo? La magistratura è andata al di là del suo compito, dando giudizi politici su fattispecie spesso solo 'travestite' da reato. È un fenomeno che nel mondo anglosassone viene chiamato juristocracy (giuristocrazia). Ma questo governo dei giuristi si è affermato perché la classe politica ha preferito lasciare campo libero alla magistratura anche in ambiti di sua competenza. Davigo l’ha detto con chiarezza: siete indegni e noi vi abbiamo sostituito. Cosicché la legalità non è più affidata alla sovranità popolare, ma delegata a un corpo di tecnici. È questa la deriva in cui siamo caduti, che solo una nuova partecipazione potrà consentire di superare. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il giurista
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