martedì 3 dicembre 2013
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​Capannoni dormitorio infestati da topi, dove decine di persone dormono, mangiano e lavorano 24 ore al giorno, in mezzo a rifiuti, cibo, escrementi. Questa la ditta di confezioni tessili andata a fuoco a Prato, cittadina che conta 4mila aziende cinesi del settore. Daniele Cologna, ricercatore di cinese all’Università dell’Insubria e tra i fondatori dell’agenzia di ricerca sociale "Codici", conosce come pochi altri l’immigrazione cinese.Ma le leggi che regolano la sicurezza nei luoghi di lavoro e a volte spacca il capello in quattro, non è uguale per tutti?Bella domanda. In realtà anche molte manifatture italiane non sono in regola, specie se poggiano sul lavoro degli immigrati. Chiediamoci: come mai dei cinesi di Prato si parla sempre molto, anche prima del rogo di sabato? Da quando il comparto moda è passato nelle mani di imprenditori cinesi, che non lavorano più in conto terzi come prima, di colpo ci siamo accorti delle loro condizioni disumane, ma questo è cinismo: la situazione lì era drammatica già 25 anni fa, eppure si tollerava tutto, perché era la base su cui poggiavano settori sofferenti della nostra manifattura... Topi e vermi non sono una novità, tant’è che molti cinesi sono scappati a gambe levate dalla manifattura, che infatti oggi copre solo il 30% delle aziende con titolare cinese, mentre il resto sono servizi (parrucchieri, bar, edicole...). Il vero problema è che in Italia il comparto della manifattura così com’è non può reggere, per essere minimamente lucrativo aggira le regole.Anche per gli italiani, allora?L’artigianato italiano che sta alle regole chiude, lo vediamo tutti i giorni. Oppure trova qualcuno su cui rivalersi, cioè gli immigrati, non solo cinesi: ad esempio i bangladeshi sfruttati in Veneto per la concia delle pelli, o gli africani in Puglia. La stranezza, insomma, è di Prato, non dei cinesi: il "sistema Prato" ha creato il fenomeno e facilitato il suo radicarsi. In una cittadina così piccola sarebbe facilissimo fare ricerche serie e produrre dati attendibili sul caso, eppure non si fa nulla, perché a qualcuno darebbe fastidio e non certo ai cinesi.A chi? Siamo espliciti.A chi ha convenienze inconfessate. È curioso che Prato dichiari la presenza di 40mila cinesi quando nessuno ha mai approfondito. È curioso anche che ora, a tragedia avvenuta, Comune e Regione si indignino e gridino allo scandalo: non sono loro ad amministrare? Il fenomeno non si estirpa a colpi di blitz ma studiandolo seriamente: il "pronto moda" a Prato non esisteva, è stato inventato dai cinesi (e dà lavoro soprattutto a loro, però non solo), ma se si è sviluppato proprio qui è per connivenze locali.E ha messo in crisi il tessile preesistente?Il tessile pratese era già in crisi. Semmai la concorrenza viene dalla Cina, non dai cinesi di Prato che invece tengono botta lesinando sui diritti dei loro lavoratori. E su questo davvero non si deve transigere.Si è parlato di schiavitù...Il sistema schiavizzante siamo tutti noi, dall’italiano che affitta loro capannoni a prezzi alti e può farlo proprio perché lavorano 19 o 20 ore al giorno, e lui lo sa, a chi compra le loro magliette a un euro per lo stesso motivo. Si parla anche di "fabbriche clandestine"...No, sono imprese registrate, le carte bollate ci sono, magari hanno ricevuto qualche multa e l’hanno pure pagata: il fatto è che sono anche loro parte integrante di come stiamo vivendo in Italia. Proprio come le nostre imprese autoctone, stanno alle regole "all’italiana", "più o meno": una stortura talmente connaturata al settore manifatturiero che nei loro bar o parrucchieri tutto questo sparisce.Perché questa voragine nel manifatturiero?Colpa nostra. Negli anni ’80 la manodopera immigrata è diventata importante, vedi l’edilizia e i tanti cantieri non a norma, le morti bianche di stranieri... È un vero miracolo che incidenti come quello di Prato non siano quotidiani.

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