sabato 23 gennaio 2010
Dal primo di gennaio anche la legge italiana prevede l’azione di risarcimento collettiva. Ecco che cos’è.
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L’unione fa la forza. Da qualche settimana anche i consumatori italiani possono fare fronte comune contro le aziende che si comportano in modo scorretto, portandole in tribunale. Finora chi per esempio aveva comprato un modello di automobile progettato male doveva rivolgersi per conto proprio al giudice e chiedere un risarcimento. Ciò significava sobbarcarsi da solo spese legali costosissime: la lotta tra singolo consumatore e grande industria non era ad armi pari. Oggi che anche in Italia è stata introdotta l’azione legale collettiva, la cosiddetta «class action», tutti gli acquirenti di quel tipo di automobile possono unirsi e chiedere in gruppo il risarcimento dei danni. In questo modo le spese per l’avvocato vengono divise e ciascun cittadino acquista più forza nei confronti della grande impresa. La versione italiana della «class action» è diversa da quella americana: da noi le aziende possono essere condannate al pagamento del solo danno economico arrecato ai consumatori mentre negli Stati Uniti oltre al danno, il giudice può condannare le aziende al pagamento di una multa salatissima, che le scoraggerà dall’incorrere in errori analoghi in futuro ma che può anche esporle al rischio di fallimento. Con i conseguenti licenziamenti.Azione di classe. In italiano si traduce «azione di classe». Definizione che non prende piede come pure l’espressione «azione di risarcimento collettivo», sebbene sia più chiara. Piace il riferimento alla classe, che sta per gruppo di persone accomunate dallo stesso problema con una certa azienda. La «class action» dà ai cittadini la possibilità di unire le forze in tribunale, ridurre le spese giudiziarie e aumentare il proprio potere contro la grande industria. Mai agire con leggerezza. Dopo anni di attese e rinvii, anche l’Italia ha la sua «class action». Le associazioni dei consumatori, che si sono battute per ottenerla, l’avrebbero voluta più simile a quella americana. Sono anche scontente per quel colpo di spugna sul passato: nessun risarcimento collettivo potrà essere richiesto per i danni causati ai consumatori prima del 16 agosto 2009. In pratica non potranno unire le loro forze i piccoli risparmiatori danneggiati dalle passate truffe finanziarie. La voglia di «class action» è comunque grande: diversi comitati di cittadini e associazioni di consumatori, soprattutto il Codacons, già nel primo giorno di entrata in vigore della norma – il primo gennaio 2010 – hanno avviato o minacciato di avviare «class action» per qualsiasi cosa. Dalle buche delle strade ai vaccini dell’influenza suina, acquistati coi soldi dei contribuenti italiani e rimasti inutilizzati, dalla raccolta rifiuti che non funziona all’acqua alta di Venezia. Dagli aumenti del pedaggio autostradale al caro-mutui. E poi contro i sistematici ritardi dei treni che i pendolari prendono per andare al lavoro. Contro le liste d’attesa per le visite mediche. Perfino contro gli autobus sovraffollati. Anche i tifosi di squadre di calcio che stanno ottenendo risultati disastrosi nel campionato minacciano – non si sa quanto seriamente – la «class action» per avere un risarcimento. Insomma, si rischia di sminuire questo nuovo strumento legale. Antonio Catricalà, presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha dichiarato di temere proprio un effetto di declassamento della «class action», tirata in causa con troppa leggerezza e ha invitato le associazioni dei consumatori a utilizzarla «per tutelare interessi seri, radicati e ricchi di contenuti». Che pacchia per gli avvocati. Non c’è nulla più della «class action» a far paura alle grandi imprese americane. Negli Stati Uniti, patria delle cause collettive di risarcimento, le aziende tremano di fronte all’eventualità che i loro clienti possano ammalarsi o andare incontro a incidenti a causa di prodotti con difetti di fabbricazione o di ingredienti nocivi. Perché così si espongono a richieste di risarcimento dalle quali spesso escono con le ossa rotte. Dagli anni Sessanta a oggi, sono state tante le multinazionali costrette a risarcimenti miliardari. Nessun settore è rimasto escluso, dalla sanità alle auto, dalle sigarette agli elettrodomestici. Quella dei ricorsi collettivi è diventata una sorta di industria di carte bollate che dà lavoro a schiere di avvocati senza pari nel resto del mondo: negli Stati Uniti c’è un avvocato ogni trecento abitanti. Un’attività che fa gola, visto che da quelle parti gli avvocati che vincono le «class action» non ricevono solo una parcella ma una percentuale sul risarcimento. L’azione più famosa resta quella avviata da Erin Brockovich – diventata anche un film – che è riuscita a vincere una causa da 333 milioni di dollari contro la Pacific Gas and Electric Company, condannata per aver contaminato le acque di una cittadina californiana e provocato tumori agli abitanti. Un altro caso che ha fatto la storia è quello contro le multinazionali del tabacco, che hanno dovuto sborsare 4,4 miliardi di dollari per venire incontro alle richieste di migliaia di fumatori danneggiati dalle sigarette. In America paga anche lo Stato: il ministero degli Interni, accusato di aver gestito male i fondi destinati alle tribù indiane che vivono nelle riserve, ha deciso un mese fa di chiudere la partita versando 3,4 miliardi di dollari.Niente spese per lo Stato. Se a danneggiare i cittadini sono gli ospedali, le scuole, le aziende dello Stato o qualsiasi ufficio pubblico non è previsto nessun tipo di risarcimento. I cittadini vittima dei disservizi pubblici possono ricorrere collettivamente davanti a giudice ma la sentenza potrà solo garantire le prestazioni richieste, a costo zero. Per esempio se la lista d’attesa per un intervento chirurgico in ospedale è troppo lunga, il giudice potrà chiedere che migliori l’organizzazione. Ma se le lungaggini dipendono mancanza di strumenti o di sale operatorie, e il problema rimarrà, i pazienti non avranno un euro perché i miglioramenti dovranno avvenire senza alcuna spesa aggiuntiva per lo Stato.
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