sabato 2 luglio 2016
Tensioni e scioperi della fame: quasi 7mila persone ferme nei campi. Allarme delle Ong: condizioni precarie ormai da mesi. Tra i container una scuola d’inglese: in cattedra i ragazzi nigeriani.
 Chio, l'isola dei fantasmi: «Fateci partire»
COMMENTA E CONDIVIDI
La coda per la cena si allunga nel cortile. Mohamed Seif Al Jassem è scappato da Aleppo quattro mesi fa. Mostra il suo vassoio. Un pugno di riso, dei fagioli e un’ala di pollo. «Non è mai abbastanza – dice – siamo tutti a digiuno per il Ramadan. Come facciamo a romperlo con così poco cibo? ». Sono le 21 a Souda, uno dei campi informali per migranti, incastonato tra il mare e le fortificazioni bizantine, sull’isola di Chio. Il sole è appena tramontato. Gruppi di bambini si rincorrono tra le tende. Alcune donne preparano il fuoco, per rimpinguare il pasto con qualche sarago arrosto pescato accanto al porto. Sebbene sia un campo informale, Souda ospita ancora almeno un migliaio di migranti. Famiglie siriane, in massima parte. Ma anche uomini soli e minori non accompagnati dal Pakistan, dall’Afghanistan, dall’Algeria o dalla Nigeria. «La rabbia aumenta di giorno in giorno», spiega Mohamed Seif, uno dei tanti che attendono di conoscere l’esito della propria richiesta d’asilo. «La burocrazia greca si muove a passo di lumaca – sbotta – dovevano iniziare a registrarci a metà giugno. Non fanno che slittare». Dalla spiaggia di Souda la Turchia si scorge a occhio nudo, in lontananza. Il porto di Cesme dista appena 10 chilometri di mare. Qui, fino a pochi mesi fa, il flusso di arrivi era continuo. Poi l’accordo di marzo tra Unione europea e Turchia lo ha rallentato, ma mai estinto del tutto. Solo a giugno sono stati 300 gli arrivi sulle isole greche dell’Egeo. Oggi, a Chio restano bloccate circa 3.500 persone. Assieme ai mille di Souda, circa 300 persone si sono accampate in un teatro abbandonato, a Dipethe. Poi ci sono gli oltre 2mila rifugiati dell’ex hotspot di Vial, oggi trasformato in un centro di detenzione a tutti gli effetti. Il mese scorso 40 rifugiati hanno iniziato uno sciopero della fame. Protestavano per le condizioni del campo e la penuria di informazioni sui tempi per l’asilo. Poi, a giugno, c’è stato un incendio. Varie tende sono andate a fuoco. E gli animi dei locali hanno iniziato a scaldarsi. «Non li vogliamo qui – dice Angelos Doria, cameriere, che nel cognome mostra chiare ascendenze coloniali genovesi –, non fanno che creare disagi. Anche il turismo ne sta risentendo ». Waddah ha una sessantina d’anni e viene da Aleppo. Si toglie la maglietta e mostra freschi i segni di percosse sulla schiena e sul fianco. «Un contadino mi ha bastonato – racconta – pensava che stessi rubando, ma stavo solo camminando e non sapevo che quello fosse il suo campo. Ora ho paura di uscire». «Molte persone soffrono di depressione per via dello stress e dell’intolleranza dei locali», l’allarme lanciato da Maria Lavida di Medecins du Monde. «Finché sono rimasti per pochi giorni, la gente si è mostrata solidale – dice Jenny Kali, del Movimento solidario di Chio – ora che sono qui da mesi, l’intolleranza cresce». Wassim Omar passeggia con i suoi tre bambini sulla banchina di Souda. Siriano, viene da Ain Al Fijah, sul confine con il Libano. A maggio è stato tra i promotori dello sciopero della fame. «Non abbiamo lasciato la Siria per rimanere bloccati sotto una tenda in Grecia» dice. La maggior parte dei risparmi della sua famiglia li ha spesi per approdare in Europa. «Mille euro a testa solo per arrivare qui da Cesme, su un gommone – racconta –, ora siamo fermi. Non abbiamo soldi, né sostegno internazionale e nessuna possibilità di lavorare». Qualcuno, come il siriano Amir Alzir (prossima puntata del reportage, ndr) ce l’ha fatta a nuoto, da Cesme a Chio. Tutti gli altri devono passare per i trafficanti. «Ci sono almeno tre smuggler che operano a Chio – racconta Mohamed Seif –, chi ha soldi riesce a partire per Atene. Chi non ne ha, resta qui. Un passaggio per raggiungere la capitale costa 500 euro. E poi c’è un giro di prostituzione all’interno dei campi, gestito dagli stessi trafficanti. Qualcuno dice persino di essersi venduto un rene per pagarsi il resto del viaggio». Le voci, alimentate dallo stallo forzato, si propagano prive di conferma. Nel centro di Vial, pochi chilometri a sud di Souda, l’attesa prosegue dentro container bianchi o tende sistemate all’interno di un vecchio capannone industriale per la produzione del mastice. L’oro di Chio. Sueil ha 20 anni e viene da Daraa, al confine con la Giordania. «Studiavo Economia all’università – spiega –, sono scappato dalla guerra civile per ritrovarmi in questa situazione». L’obiettivo è uno solo. Raggiungere Atene. «Giorni fa, alcuni ragazzi palestinesi hanno minacciato di buttarsi dal tetto – racconta – li hanno portati subito nella capitale. Perché? Dobbiamo fare come loro? Qui la gente è stanca, minaccia di darsi fuoco, se le cose non dovessero cambiare». Accanto a lui, Ahmed da Idlib ha le idee chiare: «Voglio tornare in Turchia – dice senza mezzi termini – appena ne avrò l’opportunità tornerò indietro. Meglio vivere in Turchia che restare qui ad aspettare». Nel container vive la famiglia di Fadi, anche lui di Daraa. Cinque figlie, una delle quali avrebbe bisogno di un delicato intervento al cranio. «Si può fare solo ad Atene – dice – ma aspettiamo da un mese che ci diano il via libera. Dicono che né io né mia moglie potremo accompagnare la bambina». Fuori dal container un gruppo di ragazzi nigeriani si è ingegnato per allestire una sorta di scuola per i molti bambini siriani presenti nel centro. «Insegniamo loro l’inglese e li facciamo giocare – racconta Prince, cristiano di Abuja, che prima di avventurarsi verso l’Europa faceva il tassista – quale che sia il nostro futuro, meglio costruirlo ora».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: