giovedì 9 gennaio 2014
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I diritti negati del contribuente Per favore, chiarezza. Il principio chiave della certezza fiscale non è mai stato così a rischio come in questi giorni. Neanche l’annuncio di un emendamento sulla Tasi arrivato ieri sera dal governo porterà probabilmente a una definitiva schiarita sul fronte delle tasse. Eppure è da tempo, ormai, che famiglie e contribuenti si confrontano con un universo di sigle, vecchie e nuove, spesso incomprensibili: oltre al tributo sui servizi indivisibili, ci sarà anche la Tari sui rifiuti a confluire nella Iuc, l’imposta unica comunale. E non va dimenticata l’Imu, dalla cui abolizione sulla prima casa è disceso il dibattito infinito che caratterizza l’attuale fase politica. Il problema è che l’ingorgo si è fatto a tal punto insostenibile che adesso a vacillare sembra essere il rapporto stesso tra il contribuente e lo Stato. Non è un’esagerazione. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: pagare le tasse è un dovere e vanno combattuti in tutti i modi i “professionisti” dell’evasione e dell’elusione, come sosteniamo da sempre. Il punto adesso è capire, in modo cristallino: cosa si deve fare, a chi tocca farlo, come e in che tempi. Perché si debba pagare, è già un altro discorso, anche se è evidente che quando uno Stato chiede ai suoi cittadini una compartecipazione alle spese, peraltro assai rilevante, la valutazione obbligata e conseguente riguarda innanzitutto la qualità (nel nostro Paese spesso non all’altezza) dei servizi offerti, dalla scuola alla sanità fino ai trasporti. Per il momento, però, basterebbe tornare a un clima di normalità, in cui a ciascuno tocchi fare la sua parte, nel massimo della trasparenza e dell’informazione. Senza più balletti, rinvii e sorprese.  La fiducia reciproca tra i diversi attori economici è condizione indispensabile, ma se mancano segnali certi sulle intenzioni complessive di governo e Parlamento, la credibilità a lungo costruita può davvero venire meno e sulle scelte dei consumatori si rischia l’effetto boomerang: aumenta l’incertezza, si rimandano spese e investimenti e addio crescita. A nulla servono le norme dello Statuto del contribuente (puntualmente disatteso, in centinaia di casi) se poi ci si condanna per mesi a non decidere. In materia tributaria, l’effetto annuncio è deleterio e forse sarebbe più utile, per chi deve legiferare, mettersi nei panni dei cittadini. Tutti, nessuno escluso: le famiglie, innanzitutto, che ancora non sanno ad esempio se sulla casa finiranno per pagare di più o di meno rispetto a prima; i sindaci, ancora una volta il vero anello debole della partita, cui probabilmente le entrate derivanti dalla nuova imposizione serviranno solo in parte per compensare eventuali altri tagli (ma allora perché abolire l’Imu?). Gli addetti ai lavori, dai Caf ai commercialisti, mai come adesso così inondati da notizie contraddittorie e spesso inutili, eppure unico riferimento rimasto ai contribuenti. Lo scenario più probabile, quello di Comuni con meno risorse e cittadini di fascia più debole con meno detrazioni, va assolutamente scongiurato (e a questo mirano le rassicurazioni arrivate dal Tesoro) anche perché darebbe fiato a chi si alimenta, “dal basso”, della crescente rabbia sociale di molti invisibili. Il paradosso è che tutto questo accade nel momento in cui la tanto vituperata Equitalia prende carta e penna e scrive a 150mila partite Iva per ricordare la possibilità di compensare i debiti fiscali con i crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione. Un segnale di distensione importante e un esempio di comunicazione finalmente riuscita, che potrebbe essere un buon viatico in materia, in vista del patto di governo che il premier Letta si appresta a sottoscrivere con gli alleati della sua maggioranza.

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