lunedì 6 aprile 2020
L’esperienza, nell’Ospedale Maggiore di Cremona di assistente spirituale «Anch’io sono stato positivo, credevo fosse un’influenza... In corsia gli occhi dei pazienti ti cercano e ti chiedono aiuto»
La tenda allestita nel piazzale antistante l’ospedale di Cremon

La tenda allestita nel piazzale antistante l’ospedale di Cremon - Ansa

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l tono è quello di sempre, pacato, misurato e riflessivo, ma le parole fanno capire quanto occhi e mente siano pieni di immagini forti. Don Maurizio Lucini, incaricato per la diocesi di Cremona della Pastorale della salute, è l’assistente spirituale del reparto infettivi (oltre che di pediatria e dell’hospice) dell’Ospedale Maggiore, dove era il 21 febbraio, giorno in cui si sono verificati i primi casi di Covid. Anche lui è stato colpito dal virus e dopo una quarantena non facile, da giovedì scorso, è ritornato a svolgere il suo incarico di cappellano nel nosocomio.

Con quale stato d’animo si era trovato ad affrontare i primi giorni di diffusione del virus?
Provavo smarrimento come tutti perché è stato uno tzunami. Venerdì 21 è giunta la notizia del focolaio a Codogno. Ho pensato che 'nel tempo di uno starnuto' sarebbe arrivata l’ondata a Cremona. E così è stato. Ero in ospedale. Sono cominciate ad arrivare ambulanze che hanno riempito il Pronto soccorso. Poi il primo caso in pneumologia e da lì non c’è stato più fine. Come cappellano, assieme a due altri sacerdoti e al personale sanitario, ci siamo sentiti la terra tremare sotto i piedi.

È entrato negli infettivi?
Sono entrato con i debiti presidi di sicurezza personale, ma non ovunque si poteva accedere. I reparti venivano chiusi, stravolta l’organizzazione di altri. Il Pronto soccorso era una distesa di barelle ovunque. Alcune persone all’esterno dell’ospedale mi chiedevano di rintracciare i loro cari all’interno. Ad una signora ho potuto far fare una videochiamata con i nipoti per tranquillizzarla.

Quale immagine le è rimasta impressa?
Gli occhi delle persone, l’unica parte visibile al di là delle maschere. Occhi degli ammalati e occhi degli operatori. Occhi che chiedono aiuto, occhi pieni di paura, occhi che chiedono una preghiera, occhi pieni anche di riconoscenza. Un signore mi ha detto: «Se lei entra nella mia stanza e sta lì fermo, anche senza dire niente io sono contento». La figura del sacerdote è un segno di speranza.

Ci sono parole che possono aiutare anziani, giovani, mamme, che valgano per la molteplicità di categorie colpite dal Covid?
Non c’è una parola per tutti. Nel tempo, con l’esperienza, ho imparato che c’è quella parola che nasce nel momento in cui c’è l’incontro, quella parola che si costruisce insieme tra malato ed accompagnatore. Le parole devono sgorgare quasi come una sorta di ricamo che si fa insieme.

Don Maurizio Lucini

Don Maurizio Lucini - .



La sua malattia come si è manifestata?
Credevo fosse un’influenza. Dopo alcuni giorni mi pareva di star bene, poi ho cominciato a non sentire i sapori. Mi hanno chiamato per effettuare il tampone e il risultato è stato inequivocabile.

Come ha passato il tempo della quarantena?
Steso a letto, con diverse difficoltà. Non c’è stato il tempo di rielaborare il vissuto. Però ho pensato che se questa situazione non ci aiuta a cambiare, almeno noi, uomini di fede, è un’occasione mancata.

In cosa potrebbe migliorare un credente in questo tempo difficile?
Nella concezione di Dio. Se abbiamo mantenuto l’idea di un Dio lontano che dobbiamo implorare perché si accorga di noi, ci guarisca ed intervenga, allora abbiamo ancora una visione sbagliata. Dio invece cammina con noi, è al nostro fianco e ci aiuta a trovare il senso, la Pasqua dentro questo evento.

Quindi nessuno è mai stato solo, nemmeno chi è morto senza accanto i parenti?
Nessuno muore solo. Nel trapasso, e ne ho prova quotidianamente nel reparto hospice, c’è qualcuno che ti fa da ostetrica e ti introduce in una nuova vita. La sofferenza è di chi resta qui. Ma nessuno è mai solo, nemmeno al tempo del Covid.

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