SERVIZI PUBBLICICancellato l’obbligo della gara e dell’ingresso dei privati Con la vittoria dei "sì" in relazione al primo quesito referendario sono state abrogate le norme del decreto Ronchi che imponevano dei termini rigidi e vincolanti per la vendita ai privati di quote variabili dal 40 al 70% delle società pubbliche cui erano stati affidati i servizi pubblici locali senza passare attraverso una gara.Si trattava in primis dei servizi idrici integrati, che gestiscono il cosiddetto ciclo dell’acqua, quello che va dall’acquedotto al depuratore. Senza il vincolo legislativo imposto dal governo di centrodestra, i Comuni che vorranno affidare ai privati la gestione di tali servizi potranno ancora farlo, ma, ai sensi della legge modificata dalla consultazione referendaria, può anche restare tutto com’è ora. Attualmente, la maggior parte delle 380 società che fanno capo a Confservizi è controllata dal pubblico e gestita a prescindere da qualsiasi gara: il 35% del mercato è gestito da società in house (interamente pubbliche), il 17% da società miste a controllo pubblico, il 19% da società quotate in Borsa e il 20% è ancora gestito direttamente dalle amministrazioni locali. I privati gestiscono solo il 5% sotto la forma della concessione a terzi. I servizi pubblici locali interessati da questo referendum erano, oltre l’acqua, quelli dei rifiuti, dei bus e delle metropolitane, che quindi potranno continuare ad essere assegnate a società controllate dal pubblico senza passare attraverso una gara. La legge Ronchi-Fitto non riguardava invece l’elettricità, le ferrovie e il gas. L’ingresso dei privati in questi settori è già avvenuto grazie ad altrettanti decreti del governo Prodi. (Paolo Viana)
TARIFFE DELL'ACQUALe bollette andranno riviste ma servirà un tavolo tecnicoRevisione immediata delle bollette sull’acqua: è questa la prima conseguenza della vittoria dei "sì" sul secondo quesito referendario che aveva come oggetto le tariffe dei servizi pubblici locali. In seguito all’abrogazione della norma che prevedeva la possibilità di inserire i costi degli investimenti nel calcolo della tariffa per l’acqua pubblica, le bollette dovrebbero scendere all’incirca del 7%. Non tutte, perché una parte dei consumatori italiani paga ancora la tariffa Cipe, che risale al 2000, e quindi non dovrebbero avere alcun beneficio dal voto, come non hanno avuto aggravi dalla legge ora abrogata.Per caricare sulla bolletta il 7% infatti occorreva, anche prima del referendum, che dove veniva applicata questa clausola al calcolo della tariffa fossero stati fatti preventivamente degli investimenti dimostrabili, di cui rivendicare la «adeguata remunerazione». La cancellazione della norma in questo caso comporta comunque una rivoluzione contabile: si parla di una rinegoziazione dei contratti, ma il quadro sarà chiaro solo nei prossimi giorni. La tariffa è infatti fissata dagli ambiti territoriali ottimali ma il metodo di calcolo chiama in causa anche il governo che nel 1996 (il ministro era Di Pietro) aveva varato il cosiddetto metodo normalizzato da cui discende il famoso "sette per cento". Si renderà necessario insomma un tavolo tecnico per "riassestare" il sistema e Federutility, che rappresenta il 95% dei gestori (pubblici e privati) del servizio idrico integrato si è già dichiarata disponibile a un confronto. I promotori del referendum, però, forti della maggioranza assoluta – i sì hanno superato il 50% degli aventi diritto di voto – non sono intenzionati a fare sconti. E già si parla di trascinare in tribunale i gestori che cercassero di aggirare il risultato del referendum nella bolletta. Non sarebbe la prima volta, visti i numerosi contenziosi legali sui canoni di depurazione delle acque. (P.V.)
NUCLEARELe centrali non (ri)sorgeranno. Abrogato il piano energeticoGli italiani hanno deciso che non verranno riaperte le centrali nucleari. Il decreto omnibus del 31 marzo, oggetto del quesito referendario, stabiliva una moratoria. Che, a questo punto si trasforma in un sigillo sulle porte del nucleare made in Italy. Di fatto non cambia molto nell’immediato, ma mutano le strategie. Anzitutto se le centrali non riapriranno, non verranno neppure smantellate. Dobbiamo infatti ancora risolvere dal 1987, quando si celebrò il primo referendum che chiuse le centrali, il problema dello smaltimento delle scorie radioattive prodotte fino a quell’anno. La prima urgenza del Paese diventa però la definizione di una nuova architettura energetica che sostituisca il piano di fatto abrogato dal referendum e che rispetti, come il precedente, il progetto europeo detto "20/20/20" per il clima che si prefigge entro il 2020 di ridurre del 20% le emissioni di gas serra, di aumentare del 20% il risparmio energetico e di un altro 20% la produzione da fonti rinnovabili. Il piano dovrà essere ridiscusso con le Regioni, che dal 2001 hanno competenza in materia. La strada da seguire è quella aperta due settimane fa dalla Germania di Angela Merkel, che entro il 2022 chiuderà le centrali per arrivare all’80% di energia prodotta dalle fonti rinnovabili. Berlino è stata seguita a ruota dalla Svizzera. Dunque serviranno nuovi investimenti sulle fonti alternative. L’Italia produce già circa il 20% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili, con il 16% proveniente di droelettrica e la restante parte data dalla somma di geotermico, eolico e combustione di biomassa o rifiuti. Poiché la produzione delle centrali idroelettriche non può svilupparsi ulteriormente per l’impossibilità di creare nuove installazioni, la politica incentiverà il risparmio energetico e gli investimenti su solare ed eolico per il futuro, mentre nel breve termine dovrà incrementare gli acquisti di quantità di energia notturna a basso costo prodotta in Francia dalle centrali nucleari. E dovrà agire sul mercato del gas, già primo propulsore delle centrali elettriche. Questo significa puntare, oltre che sui gasdotti, su nuovi rigassificatori. Infine serviranno investimenti tecnologici per "pulire" le emissioni di anidride carbonica e polveri sottili dei 13 impianti a carbone – più pericolosi per la salute, ma convenienti – che attualmente coprono il 12% della produzione elettrica nazionale. (Paolo Lambruschi)
LEGITTIMO IMPEDIMENTOPremier e ministri a processo con le stesse eccezioni dei cittadiniDal punto di vista strettamente tecnico, gli italiani che si sono recati alle urne e hanno votato "sì" al quarto quesito (scheda verde) hanno sancito l’abrogazione della legge numero 51 del 7 aprile del 2010: «Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza». Si tratta della normativa sul «legittimo impedimento» del presidente del Consiglio e dei ministri, in base alla quale questi ultimi, se imputati, potevano chiedere al tribunale un rinvio dell’udienza processuale adducendo come ragione ostativa qualsiasi attività «coessenziale» alla funzione di governo. D’ora in poi ciò non sarà più possibile. O meglio, sarà possibile, ma a totale discrezione del giudice, secondo quanto già previsto per ogni cittadino dall’articolo 420-ter del codice di procedura penale: «Quando l’imputato, anche se detenuto, non si presenta all’udienza e risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad una nuova udienza».Viene a cadere, insomma, la particolare tutela che la "51" riservava ai titolari della funzione di governo. Ma in termini sostanziali, l’abrogazione della legge (che era già stata ampiamente "depotenziata" da una sentenza della Corte costituzionale) cambia davvero poco. Tanto più che, per sua stessa previsione, poteva restare in vigore al massimo 18 mesi, cioè fino a ottobre prossimo, entro i quali il Parlamento avrebbe dovuto approvare (ma non l’ha fatto) una normativa di rango costituzionale per regolare la materia.Sotto il profilo politico, tuttavia, il "sì" di ieri suona come un "no" anche ad altri provvedimenti considerati ad personam (cioè in favore di Berlusconi), come quello sulla prescrizione breve che è già stato approvato dalla Camera e che, per il momento, giace al Senato. Quella legge, se approvata nei prossimi giorni, sentenzierebbe la fine del processo Mills, il più vicino alla sentenza tra quelli che coinvolgono il premier. Bisognerà vedere se il centrodestra (e, al suo interno, soprattutto la Lega) se la sentirà, dopo il responso referendario, di accelerare in quella direzione. (Danilo Paolini)