giovedì 25 luglio 2019
Ribaltata la condanna all’ergastolo. La sorella di Lidia: processo frettoloso, ora Cassazione
Esce dal carcere l’imputato, che «non ha commesso il fatto» La sentenza dopo tre anni di polemiche e colpi di scena intorno alla lettera anonima arrivata alla famiglia subito dopo l’omicidio Stefano Binda al tribunale del Riesame (Ansa)

Esce dal carcere l’imputato, che «non ha commesso il fatto» La sentenza dopo tre anni di polemiche e colpi di scena intorno alla lettera anonima arrivata alla famiglia subito dopo l’omicidio Stefano Binda al tribunale del Riesame (Ansa)

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Non sono bastati 32 anni, e diversi colpi di scena che hanno fatto anche riaprire il processo, per risolvere il caso di Lidia Macchi: la studentessa ventenne uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987, mentre tentava di sfuggire al suo violentatore in un bosco a Cittiglio ( Varese). Ieri sera infatti la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha ribaltato la sentenza di primo grado – ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale – assolvendo Stefano Binda, 51 anni, dal 2016 unico imputato nel procedimento, in cui era accusato a causa dell’amicizia che lo legava alla ragazza e per una lettera anonima, inviata alla famiglia della defunta il giorno dei funerali e nella quale una perizia calligrafica ha riconosciuto la sua mano. Invece non fu così. I giudici hanno infatti respinto del tutto la richiesta del sostituto pg Gemma Gualdi, che aveva proposto di confermare la sentenza di carcere a vita sulla base della «sovrabbondanza di prove documentali, tecniche e istruttorie » ormai acquisite, e hanno sancito l’assoluzione piena «per non aver commesso il fatto».

Binda già ieri in serata ha lasciato il carcere di Busto Arsizio dopo oltre tre anni di detenzione. La famiglia Macchi ha peraltro annunciato ricorso in Cassazione. Il legale di parte Daniele Pizzi ha definito la sentenza come «la trentesima coltellata a Lidia. I giudici avevano anticipato indebitamente il loro convincimento e avevamo fatto bene a ricusarli. Il processo è stato caratterizzato da superficialità e fretta, senza il desiderio di approfondire». Anche Stefania Macchi, sorella di Lidia, ha confermato: «Per la piega che avevano avuto le prime due udienze ce lo aspettavamo. Ci sono delle criticità e ci poteva stare qualche approfondimento in più. Abbiamo tenuto per 32 anni e andiamo avanti, ora però vogliamo sapere se è questa la verità».

Un omicidio che si aggiunge dunque a tanti altri misteri irrisolti di cronaca nera. Eppure nel gennaio 2016 sembrava che le indagini fossero arrivate a una svolta, grazie a nuove tecniche di analisi dei reperti ma soprattutto a una testimone, amica comune di Lidia e di Stefano (tutti impegnati nel movimento di Comunione e Liberazione), che aveva confrontato la grafia dell’anonima lettera-preghiera- poesia inviata alla famiglia Macchi con quella di alcune cartoline ricevute all’epoca da Binda. Una perizia confermò poi la somiglianza della scrittura e il caso venne riaperto con l’arresto del sospettato, poi riconosciuto colpevole e condannato in primo grado.

La lettera (tra l’altro vergata su un foglio proveniente da un quaderno ritrovato a casa di Binda) è però tornata protagonista nel processo conclusosi ieri, stavolta come materiale a discarico dell’imputato; infatti un penalista, l’avvocato Piergiorgio Vittorini, ha testimoniato in aula di aver ricevuto nel 2017 da un cliente (tutelato da segreto professionale) una confessione chiara: «Il segreto mi sta lacerando l’anima, ho una famiglia, ho dei figli. Ho scritto io la lettera inviata alla famiglia di Lidia Macchi», ha detto l’anonimo al legale.

Le motivazioni della sentenza saranno comunque rese note tra 90 giorni. Binda, presente in aula, è rimasto quasi immobile: nessuna lacrima o reazione. Nelle dichiarazioni spontanee finali si era dichiarato come sempre innocente: «Non ho ucciso Lidia Macchi, non l’ho uccisa. Io non so nulla di quella sera: ero a Pragelato (Torino), solo quando sono tornato ho saputo della scomparsa. Sono estraneo ai fatti e a tutti gli addebiti. Non ho fatto arrivare nulla a chicchessia, nulla che fosse anonimo». «Ci aspettavamo questa sentenza perché eravamo convinti della sua innocenza», ha commentato a caldo Patrizia Esposito, uno dei due legali di Stefano Binda. Quanto alla lettera, il collega Sergio Martelli è convinto che sia stata «scritta da una persona acculturata che era rimasta molto colpita dal fatto».

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