No a una riforma fatta solo dalla maggioranza e a «velleità punitive» nei confronti del potere giudiziario. Ma, allo stesso tempo, la magistratura non può agire «come una controparte dello Stato» e deve accettare un ragionamento sulla separazione delle carriere. Francesco Paolo Casavola, già presidente della Corte Costituzionale, è sulla stessa lunghezza d’onda del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che in un colloquio col Guardasigilli mercoledì ha chiesto la massima condivisione del progetto di riforma della giustizia tra governo e opposizioni. «D’altra parte – spiega Casavola – parliamo di una legge costituzionale, come tale sottoposta alle procedure regolate dall’articolo 138 della Carta».
Sta dicendo che per l’approvazione servirà una particolare maggioranza?Esattamente. La Costituzione prevede che le leggi di questo tipo siano adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e siano approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Non solo: nel caso in seconda votazione non si raggiunga la maggioranza qualificata dei due terzi, c’è la possibilità di un referendum popolare confermativo. Complessivamente, mi pare venga richiesto un particolare impegno deliberativo da parte del Parlamento e, d’altra parte, non si può immaginare che una legge di revisione costituzionale sia fatta solo dalla temporanea maggioranza. Occorre condivisione da parte delle forze di opposizione.
L’Anm però parla di intenti punitivi da parte dell’esecutivo nei confronti delle toghe...Il contesto in cui cade questa proposta è particolare e questo può orientare il giudizio sulle finalità con cui ci si muove. Certo non si può immaginare una situazione in cui due poteri dello Stato, il potere esecutivo e quello legislativo, si trovino di fatto contro il potere giudiziario. È questione di accenti e questo vale anche per la creazione dei cosiddetti due Csm. Anche sui limiti all’obbligatorietà dell’azione penale e sulla responsabilità dei magistrati è necessaria chiarezza e non possono esserci spazi di arbitrio politico.
Per il ministro Alfano il cardine della riforma è comunque rappresentato dalla separazione delle carriere. Come giudica il progetto?Della separazione delle carriere si fecero fautori, già nell’Assemblea Costituente, tre personalità autorevoli come Giovanni Leone, Piero Calamandrei e Gennaro Patricolo. Essi sostenevano l’assoluta dedizione del magistrato giudicante alla funzione giurisdizionale, mentre il pm avrebbe dovuto semplicemente svolgere il compito di tutela della legalità. Di questa impostazione, poi, non si fece nulla anche perché, per i magistrati, separare il pubblico ministro dal giudice sembrava far diventare il primo una sorta di superpoliziotto. Eppure varrebbe la pena riprendere il filo di quei ragionamenti, arrivando così a una separazione già presente in gran parte degli ordinamenti giuridici del mondo.
Complessivamente, come vengono affrontati i problemi cronici del sistema giustizia, a partire dalla lunghezza cronica dei processi?Ci sono aspetti come l’inappellabilità delle sentenze d’assoluzione che, mentre presentano il rischio di una verità processuale non corrispondente al fatto, senz’altro rispondono alle esigenze di economia del processo, recependo così le doglianze dell’opinione pubblica sulle lungaggini dei procedimenti. Bisogna evitare il rischio, che in qualche caso c’è, dell’accanimento dei pm contro gli imputati. Nello stesso tempo dobbiamo maggiore e sostanziale rispetto ai magistrati, un corpo ben selezionato che ha sempre fatto il proprio dovere. Davanti a questa riforma occorre da parte di tutti un vero patriottismo costituzionale, in grado di disinnescare sul nascere la tentazione di chiusure corporative o di conflitti istituzionali all’interno dello Stato.