giovedì 9 dicembre 2010
Il modello Icam a Milano. Spazi curati, attività con educatori e formazione. Mamme che possono scontare una pena «attenuata» in una struttura protetta. Giovani reclusi che riemergono da un passato difficile grazie anche alle opportunità offerte dagli istituti penitenziari. Ecco cosa c’è oltre l’emergenza.
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La stanza di Marta ha le pareti color a­rancione, gli orsetti appoggiati sul let­to e un po’ di giocattoli sparsi sul pavi­mento. In un angolo c’è un lettino dove vi­ve Giulia, due anni e mezzo, sua figlia. Non ci sono sbarre, eppure siamo in carcere, al­l’Icam di Milano, l’istituto di custodia atte­nuata per le madri detenute con figli fino a 3 anni. Un posto unico nel suo genere, dove queste donne scontano la pena o vengono rinchiuse in attesa di giudizio. Nell’Italia del­l’emergenza permanente, delle carceri so­vraffollate e di migliaia di detenuti dimenti­cati, innanzitutto dalla politica, ecco una storia che merita di essere raccontata perché va controcorrente. «Più che un carcere, sem­bra una casa famiglia» ammette l’ispettore Stefania Conte, responsabile della struttura per conto dell’am­ministrazione peni­tenziaria, mentre ci guida nella visita de­gli spazi all’interno di una palazzina di proprietà della Pro­vincia di Milano. Lo si vede dalla dispo­sizione delle came­re, curate e in ordi­ne, dalla presenza di una biblioteca e di una sala tv, dalla cu­cina dove una mamma sta prepa­rando il pranzo per le altre detenute. Ogni spazio è pensato per rispondere a un preci­so compito e il coinvolgimento di educato­ri e volontari 24 ore su 24 lo dimostra. Poi ci sono loro: i bambini. Che si svegliano con le loro mamme, escono per andare all’asilo ni­do della zona, tornano nel pomeriggio e si addormentano come fossero a casa. «Prima di creare questa struttura – racconta l’ispet­tore Conte – esisteva un nido nel carcere di san Vittore. Si trovava al primo piano, nella zona delle detenute tossicodipendenti. L’ab­biamo chiuso quando abbiamo capito che in quella struttura tutto, dal rumore sordo delle chiavi al grigio delle mura, ricordava anche ai più piccoli che ci si trovava in una prigione». Che conseguenze può avere, fin da piccolis­simi, dover crescere dietro le sbarre? È un problema che da tempo interroga le istitu­zioni, compreso il Tribunale dei minori, gli enti locali e le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti. Le conseguenze della forzata reclusione sulla popolazione infan­tile non vanno nascoste e l’Icam in questo senso è una risposta che tiene insieme le e­sigenze di custodia riservate alle madri con il bisogno di garantire un’infanzia serena ai bambini. «Qui cerchiamo di ricostruire una persona, a partire dalla richiesta di una presa di con­sapevolezza di quanto è stato commesso». La struttura ha ospitato in tutto 130 perso­ne in 3 anni, con un massimo di 16 persone contemporaneamente. Delle 3mila detenu­te rinchiuse nei carceri d’Italia, infatti, sono meno di 100 quelle che hanno i requisiti per entrare qui. E chi ci arriva sa di godere di un privilegio. «Là dentro sei in cella, in uno spa­zio piccolo con altre donne» racconta Bru­na, mentre la figlia le gira intorno. Bruna sta studiando per prendere il diploma di terza media e poter tornare a lavorare, magari co­me barista. «Intanto, con i corsi che mi fan­no fare, ho imparato a fare i dolci». I percorsi di recupero in realtà non sono semplici da affrontare. Prima di tutto per­ché sempre di una struttura penitenziaria si tratta, sia pure con agenti che girano in bor­ghese. «Gestire la sicurezza è il compito pre­valente nelle carceri normali, mentre qui è possibile fare un passo in più, sulla via del trattamento e del reinserimento» fa notare Conte. È una versione della sicurezza dal vol­to umano, possibile solo in queste condi­zioni. «All’inizio far rispettare le regole, an­che qua dentro, è stato molto faticoso. Poi molte di loro hanno capito che l’impegno in prima persona per ritornare se stesse paga, anche fuori dall’istituto». Non per tutte, in­fatti, l’uscita coincide con la messa in libertà definitiva. Per alcune si apre, in caso di buo­na condotta, la possibilità delle misure al­ternative, per altre invece, al compimento del terzo anno d’età da parte del figlio, si va incontro invece a un nuovo strappo: la se­parazione col bimbo. «È un passaggio che affrontiamo per tempo, anche grazie alla presenza di psicologi – spiega l’ispettore Conte –. Alla detenuta non viene nascosto nulla». La normalità qui dentro è il lavoro: su se stessa, innanzitutto, poi sulla relazione con gli altri, dalle compagne alle autorità. «Neppure il bambino può diventare l’alibi per non far nulla. A differenza di San Vitto­re, infatti, l’ozio non è ammesso...».
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