giovedì 4 marzo 2021
In un anno di indagini documentate le violazioni. I lavoratori costretti a vivere in baracche con paghe da fame. Sequestrata anche un'azienda agricola
Nove arresti a Gioia Tauro per lo sfruttamento dei migranti africani
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Ndrangheta e sfruttamento dei lavoratori agricoli immigrati nella Piana di Gioia Tauro. E’ quanto emerge dall’operazione “Rasoterra” condotta dalla Squadra mobile di Reggio Calabria, dal Commissariato di Gioia Tauro, col coordinamento della procura di Palmi. Nove gli arrestati, sette italiani e due africani, tre in carcere e sei ai domiciliari. “Personaggio centrale”, come lo ha definito il questore, Bruno Megale, è Filippo Raso “soggetto di elevata caratura criminale” riconducibile ai clan ‘ndranghetisti Piromalli e Molè”. Già in carcere da ottobre per traffico di droga, ora viene accusato coi complici di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e trasferimento fraudolento di valori. Era lui, da cui prende il nome l’operazione, “il dominus” effettivo dell’azienda agricola intestata fittiziamente alla figlia, anche lei indagata, per evitare una confisca. Un’azienda importante, decine di ettari di agrumi e kiwi nel comune di Rizziconi.

Qui “lavoravano i migranti in condizioni di sfruttamento” e Raso “teneva continui contatti con i caporali e i faccendieri che operavano al suo servizio, impartendo loro direttive”. Varie decine gli immigrati arruolati sia nella baraccopoli di San Ferdinando che in altri insediamenti, “pagati 20-25 euro al giorno, la metà rispetto a quanto previsto dai contratti, o addirittura 50 centesimi a cassetta di agrumi, per 12 ore di lavoro al giorno, con ogni tempo e in condizioni di pericolo, senza alcun corso di formazione e presidi di sicurezza”, denuncia il capo della Mobile, Francesco Rattà, definendolo “uno spaccato veramente inquietante, di particolare spessore criminale”. Braccianti che venivano sfruttati anche in altre aziende.

Raso era a capo di tale sistema, “imponendo comportamenti e fornendo direttive, minacciando e punendo chi non eseguiva i suoi ordini, ben sapendo di essere temuto e ossequiato e di potersi avvalere di una strutturata rete di collaboratori per realizzare i suoi obiettivi”. C’erano i due caporali africani, Ngom Ibrahim detto “Rasta”, del Senegal, e Karfo Kader detto “Cafù”, della Costa d’Avorio, arrestato a Caserta, perché “svolgeva la sua attività illegale anche in quel territorio e nel Foggiano”, ha spiegato il funzionario della Mobile, Luca Carlà. C’erano poi gli incaricati dei trasporti, quelli addetti alla sorveglianza dei braccianti al lavoro, e quelli che si occupavano dei pagamenti. Mario Montarello era “il fedele faccendiere di Raso Filippo e svolgeva l’importante ruolo di tenere i contatti con i caporali e controllare il lavoro degli extracomunitari”. Pluripregiudicato per traffico di droga, nel corso della perquisizione gli è stata trovata una mini machine pistole.

Mentre nelle case di altri due degli arrestati è stata trovata della cannabis, non per uso personale e quindi sono stati ulteriormente denunciati. Tra gli arrestati anche il figlio ventenne di Raso, che aveva affiancato il padre nei rapporti coi caporali già da minorenne. Purtroppo un classico nel mondo ‘ndranghetista. L’indagine, partita nel 2018, è stata possibile grazie alla legge anticaporalato del 2016, “uno strumento molto importante per disvelare il fenomeno dello sfruttamento”, sottolinea il dirigente del commissariato di Gioia Tauro, Diego Trotta. Fondamentali, ad esempio, le intercettazioni. Così gli investigatori hanno potuto ascoltare gli ordini di Raso ai collaboratori. “Mandami sette operai”, “Non stanno a lavorare, vai a controllare”.

O anche le minacce: “Puniscilo!”, “Pagalo meno”. E anche indicazioni sui mezzi di trasporto: “Questo è un furgone da sette posti, ma ne puoi portare quanti ne vuoi”. Prove importantissime, perché “questo fenomeno di sfruttamento è destinato rimanere nell’ombra, di difficile emersione perché le vittime sono soggetti estremamente vulnerabili, poco inclini a denunciare per il timore di perdere il lavoro. E, infatti, l’indagine non è partita da qualche denuncia”. Gli investigatori della Polizia sottolineano anche come “la baraccopoli fosse il luogo di incontro tra domanda e offerta, domanda di lavoro a basso costo e senza diritti, e offerta dei migranti disponibili ad accertarla”. Ma una volta sgomberate e abbattute le baracche nel marzo 2019, lo sfruttamento non è certo finito.

Anche perché non è mai stata realizzato un vero e degno sistema di accoglienza per i lavoratori immigrati. Per questo settimanalmente vengono fatte delle mirate verifiche nelle aziende. “Ci stiamo sforzando di svolgere attività di controllo e prevenzione, non solo per contrastare il fenomeno dello sfruttamento, ma anche per evitare occasioni di tensione e prevenire episodi di intolleranza”, ha spiegato il questore. Parole importanti. Basti ricordare la rivolta degli immigrati a Rosarno nel 2010, provocata dallo sfruttamento e dalle violenze della ‘ndrangheta. Le tante aggressioni subite dagli immigrati all’inizio del 2016. E l’uccisione di Soumaila Sacko il 2 giugno 2018.

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