mercoledì 22 aprile 2015
​In 30 hanno sforato il patto del 2014 per circa 400 milioni. Tagli del personale, nessuna soluzione in vista.
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Conti a rischio, personale in esubero, competenze tutte da definire. Se a questo aggiungiamo la lentezza nel legiferare da parte delle Regioni e l’attesa senza esito di un decreto ad hoc da parte del ministero della Pubblica amministrazione, allora il caso Province è completo. Non è solo la protesta continua, soprattutto al Sud, da Taranto a Vibo Valentia, a preoccupare.La novità più recente riguarda la sostenibilità del sistema, interessato contemporaneamente dagli effetti della riforma Delrio e dai tagli previsti dall’ultima Legge di Stabilità. «Dal 2012 al 2015 alle Province è stata chiesta una riduzione di risorse pari a 3,2 miliardi» ha ricordato due giorni fa durante un’audizione in Commissione Bilancio, il presidente dell’Upi (Unione province italiane) Alessandro Pastacci. Ma è dal punto di vista territoriale che la situazione appare pericolosamente compromessa, visto che 30 Province hanno sforato il Patto di stabilità 2014 per circa 400 milioni ed è la prima volta che questo accade. Non solo: secondo documenti presentati in sede governativa alle parti sociali, sarebbero addirittura 45 le Province ormai in situazione di dissesto finanziario. È evidente che, di questo passo, «ad essere abolite non saranno tanto le Province, ma i servizi che erogano» sottolinea l’Upi. Già nei mesi scorsi alcune amministrazioni locali hanno dovuto chiudere interi tratti stradali per evitare rischi legati alla mancata manutenzione, hanno dovuto ridurre al minimo i finanziamenti per le scuole superiori, hanno tagliato alla voce «trasporti pubblici» e «politiche per l’ambiente». Tutti capitoli di spesa storicamente appannaggio delle realtà provinciali. «Non è possibile prelevare altre risorse dal comparto per il 2016 e 2017, a meno che non si decida deliberatamente di intaccare i servizi essenziali ai cittadini» ha spiegato Pastacci. I timori non sono solo dell’Upi, ma anche dei Comuni italiani. L’Anci ha ricordato al governo che vanno assicurati «interventi urgenti per la sostenibilità della gestione finanziaria delle città metropolitane e delle Province, nelle more della completa attuazione del processo di riforma del loro assetto».L’altro aspetto da monitorare resta la distribuzione del personale: dei 54mila lavoratori a carico, sono oltre 20mila i dipendenti provinciali in potenziale esubero, per i quali non c’è al momento un’ipotesi di ricollocamento. A questi andrebbero aggiunti i precari attualmente in servizio, oltre 2mila. Dal 31 marzo bisognava individuare il personale da spostare anche se, fino al primo gennaio 2017, nessuno dei dipendenti provinciali rischia di restare a casa. Ci sono dunque quasi due anni di tempo per gestire la platea del personale in sovrannumero, ma per farlo è necessario velocizzare la legislazione regionale che invece è ferma al palo. Solo Toscana, Liguria, Marche e Umbria si sono mosse sul versante del riordino delle funzioni provinciali, mentre spetterà all’esecutivo emanare un decreto che fissi i criteri da rispettare per selezionare il personale da mettere in mobilità. Dove finiranno dunque i 20mila? Presumibilmente più verso le Regioni che i Comuni, ma saranno decisive ancora una volta le risorse. Che sia in corso uno scontro, neppure sotterraneo, tra Stato centrale ed enti locali è un dato di fatto: l’ultima Legge di Stabilità ha tagliato di 1 miliardo i trasferimenti a Province e città metropolitane, di 1,2 miliardi i fondi ai Comuni e di 3,9 i finanziamenti alle Regioni. La sensazione è che, se sin qui ha prevalso la logica del rinvio nel definire i regolamenti dei nuovi enti territoriali, è proprio perché si aspetta di capire quale sarà la contropartita economica messa in campo da Palazzo Chigi. Per questo si tratta tra le parti, finora senza esito.
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