giovedì 7 ottobre 2021
Il leader di Azione: farò un tour per promuovere l'area politica del pragmatismo. Draghi è l'archetipo ma tocca ad altri crearla. La mia indicazione su Gualtieri a Roma? Solo la soluzione meno dannosa
Carlo Calenda

Carlo Calenda - ANSA

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Carlo Calenda è stato una sorta di "grande speranza" di questo primo turno delle amministrative 2021. Ha convinto a votare per lui 219.807 romani, che lo hanno issato al terzo posto della corsa (ma sopra la sindaca uscente Virginia Raggi) e hanno fatto della sua lista il primo partito della capitale. Un protagonista, in ogni caso, per quanto sconfitto. Confessa, però, smaltita «la delusione delle prime ore, di apprezzare ora la soddisfazione per il percorso fatto» in un anno intero di campagna elettorale. Un percorso che ora prosegue, per creare quella che definisce «una grande onda di idealismo pragmatico».

Ritiene che sia stato più un voto alla sua persona o a uno spazio politico che si può aprire?

Non sono un megalomane. Non penso sia stato un voto a me, semmai a un modo diverso di fare politica. E l’apprezzamento per una candidatura fortemente voluta da me e non scelta dai capipartito. In questo, forse, è stato un segnale.

Per dire cosa?

Per rifondare la politica, per crearne una non più basata sul rinfacciarsi ancora le accuse "fascista" e "comunista", ma sulla ricerca delle soluzioni ai tanti problemi esistenti, che sono difficili ma possono esserlo di meno se li affrontiamo assieme.

Ora ha annunciato un tour per l'Italia?

Sì, da fine ottobre a gennaio. Partirò dal Nord e finirò al Sud. Cercherò di convincere le persone che la politica è l’arte del governo, non è stimolare il voto "contro" qualcuno. È questa la rivoluzione di cui abbiamo bisogno in Italia. Cercherò di attivare una grande onda di idealismo pragmatico. Quel che deve contare è spiegare ai cittadini la propria visione della società, basata su cosa si può fare realmente e non sui sogni e su sterili parole d’ordine.

Perché nella campagna elettorale a Roma non ha usato il simbolo di Azione?

Perché era un progetto di natura civica, parlava a una città. Azione è nato come un partito di ispirazione liberal-socialista che prende le mosse dal partito d’Azione.

Il suo progetto a chi altri guarda ora? Ai riformisti in genere, ai moderati?

Guardi, le definizioni per me contano quando le declini in politiche effettive. A cosa serve definirsi di sinistra o di destra, se poi una volta al governo, a esempio nell’immigrazione, non si sono fatte politiche di vera integrazione dei migranti e non si sono chiusi davvero i porti? Deve contare quel che si fa, non quel che si proclama. Il resto è buono solo per i talk-show.

Draghi può essere un leader di questo percorso?

È di sicuro un punto di riferimento, perché anche lui si è definito un liberal-socialista, ma soprattutto perché è l’archetipo di questa politica pragmatica. Ciò detto, penso che lui sia più interessato a fare il capo dello Stato se non a restare a Palazzo Chigi. Tocca a noi, allora, tramutare quello che ci piace di questo governo istituzionale, diverso dagli altri, in un voto convinto da mettere nelle urne. Questo ci deve far riflettere. Troppo spesso noi italiani oggi votiamo con la pancia e non con la testa e il cuore. È ora di spezzare questa maledizione, se vogliamo bene al Paese.

È inevitabile accostarla al percorso di Matteo Renzi, il leader di Iv.

Io non credo però a un’unione di sigle. Renzi ha oggi un percorso molto parlamentare, ha fatto il premier, ora è interessato all’elezione del presidente della Repubblica. Io sono in una fase diversa. Non ho niente contro di lui e ho molta stima della classe dirigente di Italia Viva, ad esempio del ministro Elena Bonetti. Però abbiamo anche visioni a volte molto differenti. Non concordo sul liquidare il reddito di cittadinanza solo come «soldi dati a chi sta sul divano», piuttosto mi voglio impegnare affinché queste persone siano coinvolte in percorsi di lavori di pubblica utilità, con un compenso anche maggiorato rispetto al Rdc. A Roma pensavo a esempio di ripristinare la figura dello spazzino di quartiere. Sono anche a favore del salario minimo legale. E sono stato e resto in totale disaccordo sull’appoggio dato da Renzi al governo Conte II.

Il voto «personale» per il secondo turno a Roma da lei indicato per Roberto Gualtieri (Pd) può aver infastidito suoi elettori tendenzialmente di centrodestra?

Probabilmente sì, me ne rendo conto e mi spiace. Non ho fatto però un passo indietro sul giudizio di complessiva debolezza della proposta di Gualtieri, né sulle critiche alla classe dirigente romana del Pd. Semplicemente ho preso atto del meccanismo del doppio turno, che ti porta a votare poi la soluzione che si ritiene meno dannosa. E questa per me è Gualtieri, persona che stimo, mentre considero Michetti - specie dopo i confronti avuti con lui, che sono stati rari per sua scelta - una figura totalmente inadeguata a guidare una città complessa come la capitale.

A proposito di Conte: ha detto che «non vede M5s come un ramo di un nuovo Ulivo».

Ma più che ai rami Conte deve pensare alle pagliuzze. Il Movimento non c’è più. Resterà una sorta di nuova Udeur agganciata qua e là a qualche cacicco locale. È stato una grande illusione. Durata un baleno, per nostra fortuna.

Enrico Letta, segretario del Pd, continua però a guardare molto a un'alleanza con M5s.

Se la farà, vuol dire che non faremo alcun percorso insieme.

In sostanza, a chi si vuol rivolgere allora?

Mi rivolgo a tutti coloro che ragionano con la propria testa e non per schemi fissi. E guardo anche a tutta l’area del popolarismo europeo - penso a Mara Carfagna e altri in Forza Italia -, visto che Berlusconi ha deciso di chiudere la sua carriera politica sotto il giogo di Meloni e di Salvini.

Il capo della Lega intanto litiga con Draghi sulla riforma fiscale...

Salvini è un politico che non sa prendersi le sue responsabilità e fa i suoi giochini, consapevole di aver fatto un percorso politico di crescita che ora si è arrestato. Vede sfumare il forte consenso e perde lucidità. Succede a tanti.

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