sabato 26 marzo 2016
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La sua forza è inversamente proporzionale alla statura. E a dargliela è proprio quel piccolo crocifisso al collo da cui non si separa mai. Troppo grande, e per certi versi anche innaturale, la via crucis che Maria Picariello – avellinese trapiantata a Roma – vive ormai da tanti mesi. È costretta a guardare gli ultimi attimi della vita di un figlio e, nel frattempo, lotta anche lei contro la morte. Mentre prova a spiegare tutto questo, se ne sta seduta su un divanetto dell’hospice Villa Speranza. Le mani giunte che stringono un fazzoletto intriso di lacrime, gli occhi lucidi. Minutina, dall’alto dei suoi 96 anni ha un grande peso sulle spalle. «Lui però mi aiuta, mi sostiene sempre, mi dà il coraggio di non fermarmi a chiedere: Signore, perché a me?», è la premessa. La sofferenza che custodisce nel cuore, è che ogni tanto nel raccontare si trasforma in un rivolo di pianto, non è solo dovuto al suo tumore, tornato a farsi sentire. A toglierle il fiato, infatti, è soprattutto il dover assistere il figlio Luciano di 55 anni in fin di vita, accolto nella struttura dell’Università Cattolica. Dovendosi poi dividere tra l’hospice e l’ospedale Sant’Andrea, dove il marito è ricoverato da alcune settimane. Così al mattino prima di arrivare a Villa Speranza va a fare la chemioterapia, perché «se Dio vuole mi tenga in vita – è il desiderio più grande di Maria – almeno fino all’ultimo giorno di Luciano». La sua mano non lo lascia per ore e, appena può, si siede nella piccola cappella dell’hospice per fissare quel crocifisso con il sudario in cima al monte Calvario costruito da alcuni pazienti con legno e creta. Sa che «bisogna offrire la propria sofferenza al Signore», questo è il «destino dei buoni» secondo Maria. «Non posso tradire il nome che porto » aggiunge d’un fiato la donna, così come la Madonna «starò in silenzio ai piedi del letto di mio figlio, quando Dio lo chiamerà a sé». Puoi solo ascoltarla Maria. Farti trascinare dalla sua incrollabile fede e dalla fermezza con cui ripete che «se questa è la volontà del Signore, la sola risposta è amen». Lo ha fatto alla vigilia di ognuno dei venti interventi a cui è stata sottoposta nella vita e, «se sono ancora qui, è il segno che Dio c’è». Colpisce la serenità – nello strazio – con cui accoglie su di sé ogni prova difficile. A disarmare, inoltre, è il suo essere 'roccia' dal volto sorridente. Questa è l’immagine con cui la descrive don Carlo Abbate, assistente spirituale di Villa Speranza. Qui «dove si tocca l’uomo senza maschera – è la spiegazione del suo considerare un dono il servizio ai malati terminali – si toccano le corde più alte della vita». Perciò quella mano di Maria tenuta stretta tra le sue è più eloquente di tante parole; è «Verità assoluta», «umanità senza filtri», ricorda il sacerdote. Ecco perché quando si prova a chiedere ai volontari la 'filosofia' più giusta per accompagnare pazienti e familiari nel momento più delicato della loro esistenza, la replica più comune è un sospiro appena accennato. Molto spesso «si sta accanto nel silenzio – racconta Franco Mozzetti, uno dei volontari storici – accarezzando la mano», anche quando sembra che la malattia abbia preso il sopravvento, «vivendo con loro a pieno ogni respiro della giornata». Una concessione che, in luoghi come questi, sembra ancora più preziosa. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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