giovedì 24 ottobre 2013
​ll 68% dei decreti varati dal governo Monti mancano ancora delle norme di attuazione. È un circolo vizioso tra Parlamento, governo e amministrazione pubblica che rallenta e spesso vanifica le riforme.
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Le leggi in Italia si approvano, ma poi non si applicano, si applicano con ritardo o con modifiche sostanziali. È un circolo vizioso che rallenta e impantana ogni riforme. Il dato è clamoroso: il 68 per cento dei provvedimenti del governo Monti restano ancora inattuati, in attesa di regolamenti, deleghe, circolari. È un vero e proprio monumento all’impotenza della politica di fronte al peso insostenibile della burocrazia, che dimostra insieme il suo potere di interdizione e la sua scarsa efficienza. Il fenomeno è ben noto agli esperti. Meno, forse, al grande pubblico. Anche perché i riflettori della stampa sono quasi sempre puntati contro la politica e i politici. Ignorando per esempio che il presidente della Camera o del Senato guadagna considerevolmente meno del suo segretario generale. O che il rapporto dirigenti /impiegati nella Pubblica amministrazione è di uno ogni 14, più del doppio della media europea. Nella storia di ombre e luci dell’alta burocrazia, dei "grand commis" di Stato, delle alte magistrature, la breve stagione tecnica del governo Monti ha costituito un vero e proprio spartiacque introducendo quelle norma norme di trasparenza e di buon senso, richieste a gran voce da decenni, ma osteggiate e rinviate. La legge Severino oggi è nota al grande pubblico soprattutto per gli aspetti legati alla decadenza di Berlusconi. Ma forse sfugge a molti che per la prima volta ha introdotto il divieto tassativo e totale per i magistrati (siano essi ordinari, amministrativi o contabile) di essere componenti dei collegi arbitrali. Gli arbitrati sono una forma di giudizio privato alla quale ricorrono spesso le aziende, che non possono attendere per il disbrigo di una controversia i tempi biblici della giustizia civile. Fino all’entrata in vigore della legge Severino per comporre il collegio arbitrale bisognava, per legge, attingere al serbatoio dei soliti noti: magistrati ordinari, amministrativi, contabili e avvocati dello Stato. In qualche caso erano ammessi anche legali di grido, tra cui alcuni ex politici. Per gli arbitri, indicati dalle parti in lite, c’erano ingenti parcelle fino a svariate centinaia milioni di euro. Fin qui niente di scandaloso. Ma spesso tra le parti era citata un’azienda pubblica, un ministero, una Regione. Il risultato era un’evidente commistione tra interessi privati, interessi dello Stato e amministrazione della giustizia. Clamoroso, ma non certo unico, fu il caso di un consigliere di Stato che assunse un arbitrato "pesante" in materia di costruzione di strade quando era anche segretario generale di Palazzo Chigi, ossia il numero uno della burocrazia del governo.Un altro provvedimento importante, contenuto sempre nella legge Severino, è stato il pacchetto di norme per porre fine al fenomeno negativo delle doppie carriere. Alcuni magistrati svolgevano di fatto due attività contemporaneamente: giudici e capi degli uffici dei ministri, con raddoppio dello stipendio. E, soprattutto, con il rischio di un vero cortocircuito: quello di trovarsi a giudicare o dare pareri su norme scritte da loro stessi o da altri colleghi magistrati arruolati nello stesso governo. La nuova norma obbliga oggi i magistrati e gli avvocati dello Stato che assumono incarichi di vertice nei ministeri, nelle Authority o in altri enti pubblici, a mettersi fuori ruolo. Ossia a dismettere la toga per il tempo dell’incarico. Inoltre il fuori ruolo può durare in tutto solo dieci anni, mettendo fine a quelle carriere di professionisti del "gabinettismo", che tante critiche hanno provocato. Le nuove norme tagliano definitivamente il doppio stipendio. Nel senso che chi assume incarichi di gabinetto nei ministeri può avere un indennità aggiuntiva non superiore al 25 per cento del precedente stipendio. Questa disposizione va vista anche alla luce di quella che prevede un tetto (parificato allo stipendio di primo presidente di Cassazione, 303mila euro annui) alle retribuzioni dei dirigenti pubblici. Un tetto che comprende anche eventuali altri incarichi di consulenza, di insegnamento e così via. Tutto bene quel che finisce bene? C’è un neo. La norma sulla incompatibilità dei magistrati voluta dal governo Monti rimandava a un regolamento successivo, da predisporre entro tre mesi, per decidere quali fossero gli incarichi apicali incompatibili con l’esercizio contemporaneo della magistratura. I tre mesi sono passati invano - addirittura fu fatta circolare una bozza di regolamento "falsa", che ne rallentò l’approvazione - e la norma è di fatto scaduta.Bisogna dire che le magistrature di fronte a questo vuoto normativo hanno prontamente varato codici di autoregolamentazione. Il Csm ha però deciso di estendere la norma del fuori ruolo a tutti i magistrati chiamati a far parte dei vertici dei gabinetti dei ministri – ma ha dovuto fare subito un eccezione per due magistrati nello staff della Cancellieri, prestati al ministero da più di 10 anni. Mentre Consiglio di Stato, Corte dei Conti, e Avvocatura lo hanno previsto solo per i capi di gabinetto e vice. Lasciando fuori dall’incompatibilità l’incarico di capo dell’ufficio legislativo. Una figura di supertecnico, ma della quale è evidente la "valenza politica": quella di scrivere materialmente le leggi volute dai ministri. Un privilegio che, invece, proprio non si riesce ad abolire – nonostante tanti tentativi – è quella che assegna a tutti i dipendenti del ministero dell’Economia (dai massimo vertici all’ultimo commesso) una provvigione annua, una specie di premio di produzione, calcolata sulle privatizzazioni, i risparmi e i tagli al bilancio dello Stato. Nessuno tra i tanti beneficiati ne parla volentieri. In effetti la norma, voluta dal ministro Tremonti nel 2003, potrebbe suonare così: taglio un ospedale, chiudo una scuola, vendo un palazzo pubblico e c’è chi ci guadagna sopra. Solo questione di buon gusto?
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