mercoledì 4 maggio 2011
La deposizione dell’uomo che azionò il telecomando della strage di Capaci. «Nel ’92 Cosa Nostra aveva collegamenti con la sinistra, con politici locali e con la Dc». Dopo l’uccisione di Salvo Lima e la stagione stragista «era cessato ogni rapporto con lo Stato». Da qui, secondo il collaboratore, la necessità di cercare nuovi referenti.
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Ricostruisce presunti legami tra Stato e mafia, contatti con i vertici delle istituzioni nei primi anni Novanta, fasi alterne della trattativa per fermare le stragi, ma soprattutto fa nomi e cognomi eccellenti. Il pentito Giovanni Brusca, dietro al paravento di sicurezza nell’aula bunker di Firenze in occasione del processo sulla strage di via dei Georgofili, è un fiume in piena e i suoi racconti scatenano una valanghe di polemiche. Per il killer sanguinario di San Giuseppe Jato, l’ex ministro dell’Interno democristiano Nicola Mancino fu il "committente finale" della trattativa del 1992. Poi, dopo l’arresto del capo Totò Riina, Cosa nostra avrebbe pensato a Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, come referenti politici per «aggiustare il 41 bis e per avere altri benefici». Secondo il racconto di Brusca, Riina nel ’92 gli disse: «Si sono fatti sotto». «Non mi disse il tramite - aggiunge Brusca - ma il committente finale e mi fece il nome di Mancino. Non l’ho mai detto in pubblico dibattimento, ma lo raccontai al pm Gabriele Chelazzi (morto nel 2003, ndr) in un interrogatorio».Il collaboratore di giustizia, che azionò il telecomando della strage di Capaci, ricostruisce punto per punto dei presunti rapporti tra pezzi dello Stato e la mafia. «Nel 1992 Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con la Dc attraverso Salvo Lima e a livello nazionale con Andreotti - dice -. Dopo l’uccisione di Lima e la stagione stragista, bisognava cercare nuovi referenti politici: in cambio davamo voti e stabilità». Brusca sottolinea che, dopo la strage di via d’Amelio, «era cessato ogni contatto» con lo Stato. Le stragi di Firenze, Roma e Milano erano «strumenti per risvegliare lo Stato e per consigliarlo a trattare nuovamente». Nasceva così la necessità di rivolgersi a nuovi referenti politici, a cui porre le stesse richieste che Brusca dice essere state rivolte a Mancino.«A ottobre del 1993 con Bagarella (boss mafioso cognato di Riina, ndr) ebbi un contatto con Dell’Utri, senza mai incontrarlo, attraverso Mangano, per avere modo di "arrivare" a Silvio Berlusconi - racconta -. Fallita la trattativa con Mancino, lessi su L’Espresso un articolo su Vittorio Mangano, in cui si diceva che era stato fattore di Berlusconi. Allora io e Bagarella abbiamo convocato Mangano e lo abbiamo mandato a Milano con l’incarico di contattare Dell’Utri per dirgli che le bombe le avevamo messe noi e avremmo continuato a metterle se non cambiava qualcosa. So che Mangano si è incontrato con Dell’Utri e lui disse che si sarebbe messo a disposizione. Poi però Mangano venne arrestato».Immediate le reazioni dei politici coinvolti da Brusca. «Se Riina ha fatto il mio nome, è perché da ministro dell’Interno ho sempre sollecitato il suo arresto e l’ho ottenuto», dichiara Mancino, che giudica le parole di Brusca «una vendetta contro chi ha combattuto la mafia con leggi che hanno consentito di concludere il maxiprocesso e di perfezionare e rendere più severa la legislazione di contrasto alla criminalità organizzata». E al vertice di maggioranza a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi avrebbe mostrato sdegno per le accuse, commentando: «Siamo alla follia, ci accusano di cose quando noi politicamente non esistevamo, io non ero nemmeno sceso in politica». E il suo difensore, l’avvocato Niccolò Ghedini, fa sapere che il premier «non è mai stato contattato né mai ha ricevuto richiesta alcuna riguardo alle situazioni indicate da Brusca.
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