mercoledì 29 ottobre 2014
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«La consegna dei 530 beni confiscati a Palermo è un segno positivo e concreto che ci incoraggia nella lotta alle mafie. È la dimostrazione che se si vuole si può fare. Ma bisogna aumentare l’impegno. Nelle gestione dei beni confiscati c’è una situazione di inefficienza che va rapidamente e profondamente corretta. I beni vanno restituiti tempestivamente alla collettività e questo ora non avviene». Soddisfazione e denuncia nelle parole del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti che oggi sarà nel capoluogo siciliano per l’importante evento. E che sorride quando gli facciamo notare che questo «segno positivo e concreto» arriva dopo giorni di molte parole in libertà sulla mafia. Non vuole commentare la vicenda della testimonianza del presidente Napolitano («Non mi faccia neanche la domanda...»), ma accetta di riflettere su presente e passato delle mafie. «Sicuramente dobbiamo essere molto attenti a quello che accede oggi ma senza perdere la memoria del passato. C’è un filo rosso che ci collega a vicende di venti anni fa che vanno ancora chiarite. Sono punti oscuri che non vanno persi di vista». Procuratore, dunque un buona notizia ma anche la richiesta di fare meglio. Il fatto che si sia riusciti a lavorare bene ci incoraggia a vedere come migliorare la situazione. Tutto il sistema dei beni confiscati va reso più efficace. Colpa dell’Agenzia nazionale? Non dipende solo dall’Agenzia, che con la struttura scarsa che ha non può fare di più. Servono interventi legislativi che permettano di seguire la sorte del bene, che assicurino la tempestività nell’assegnazione e nella destinazione, ma anche di intervenire sul suo stato visto che non poche volte resta in mano al mafioso o alla sua famiglia. Si dice che i fondi sono pochi per far funzionare il sistema. E allora vediamo se è possibile finanziare l’Agenzia coi beni mobili sequestrati o anche con l’affitto o, come ulteriore possibilità, con la vendita di alcuni beni immobili o anche delle aziende che non ce la fanno a rientrare nel circuito legale. In questo modo potremmo anche sostenere le iniziative che invece riescono a far rinascere nella legalità le imprese confiscate. Come la cooperativa di ex lavoratori dell’azienda legata a Matteo Messina Denaro. Ma è un caso rarissimo. È vero. Quello delle aziende confiscate è un problema legato proprio al concetto di azienda mafiosa che o è una scatola vuota oppure ha un 'avanzamento mafioso', ha una marcia in più proprio in quanto mafiosa, perché riconosciuta come mafiosa. Inoltre si avvantaggia grazie ad una gestione illegale, al lavoro nero. E quando viene confiscata? Entra in crisi, perché gestire legalmente un’azienda costa molto di più. E poi molto spesso le banche che prima sosteneva l’impresa mafiosa poi dopo la confisca ritirano gli affidamenti. Cosa si dovrebbe fare? In primo luogo servirebbero delle professionalità ad hoc per gestire le aziende dopo la confisca. Purtroppo attualmente accade poche volte ma quando ci sono, come nel caso di Castelvetrano che lei ha citato, funziona. E poi bisognerebbe assicurare sgravi fiscali e agevolazioni per l’accesso al credito. Dobbiamo decidere se vogliamo incentivare e premiare chi, soprattutto cooperative di giovani, si vuole impegnare in questo. Deve essere una sfida che coinvolge tutti. Altrimenti se l’azienda dopo la confisca chiude, la gente dice che il mafioso faceva lavorare e lo Stato no... C’è bisogno di chiarezza. Bisogna spiegare alla collettività che quell’azienda non andava bene perché era in mano al mafioso. Perché la ricchezza andava solo al mafioso e il lavoro in realtà era apparente. Ma poi, lo ripeto, va fatto funzionare meglio tutto il sistema. Con fatti concreti.
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