sabato 3 ottobre 2015
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La produzione di energia da biomasse in Italia ha avuto un vero boom negli ultimi anni. E ovviamente crescono dubbi e affari poco chiari (vedi altro articolo) su una produzione dove i vantaggi in termini economici e ambientali corrono il rischio di essere ridotti o annullati da furbi e affaristi, o anche solo da forzature delle norme.Partiamo da alcuni numeri. Nel 2014 gli impianti a biomasse, nel loro complesso, hanno prodotto circa 12 TWh pari al fabbisogno elettrico di 4,4 milioni di famiglie, come segnala Legambiente sull’ultimo rapporto "Comuni rinnovabili". Ed è proprio dal numero di comuni dove sono installate centrali a biomasse che emerge il forte incremento: erano 32 nel 2005, sono arrivati a 2.415 lo scorso anno, con una potenza cresciuta dell’800% e che attualmente ha raggiunto i 2.936 MW elettrici e i 1.306 termici. In totale il 3,8% dei consumi energetici complessivi. Ma va subito fatta una distinzione tra biomasse solide, gassose e liquide. Le prime riguardano impianti dove vengono bruciati materiali di origine organica, sia vegetale che animale. Si trovano in 1.733 comuni e producono 942 MW elettrici, 1.131 termici. Sono concentrati nelle aree interne del centro-nord, dove vengono bruciati soprattutto scarti agricoli e delle lavorazioni forestali, e nelle aree costiere del sud vicino ai porti, dove spesso si brucia legname proveniente dall’estero. Si tratta di grandi impianti, sovradimensionati rispetto alle risorse presenti sul territorio. È il caso della Calabria che nella classifica dei comuni con più potenza installata occupa quattro dei primi cinque posti: Strongoli, Crotone, Cutro e Rende, con solo l’altoatesino Silandro a interrompere l’elenco. E molti altri impianti sono in attesa di autorizzazione o sono stati bloccati. Anche perché, oltre a possibili impatti ambientali e a eccessi di produzione, la questione è proprio l’approvvigionamento che non dovrebbe andare oltre i 70 km, per avere un vero legame col territorio.E la materia in Italia certo non manca: secondo recenti studi i residui agricoli annuali ammontano a circa 12,8 milioni di tonnellate ai cui vanno aggiunti gli scarti zootecnici. Utilizzare questi e non legno vergine, oltre a un forte risparmio nella produzione (e quindi anche dei costi in bolletta) eliminerebbe materiale che altrimenti verrebbe smaltito come rifiuto. Materiale che viene utilizzato anche negli impianti a biogas grazie alla combustione di gas, soprattutto metano, prodotto dalla fermentazione batterica dei residui organici agricoli o fanghi di depurazione. I comuni con questi impianti sono 894 con una potenza di 1.165 MW elettrici e 176 termici. La maggiore distribuzione è in pianura padana e in Trentino Alto Adige. Impianti molto importanti perché riducono le importazioni di metano, ma anche qui l’attenzione deve essere posta sulle dimensioni, sull’origine delle materie utilizzate evitando lunghe distanze e sul residuo finale della fermentazione, il cosiddetto digestato che se ben gestito può essere un ottimo ammendante (concime) per l’agricoltura, chiudendo il cerchio.Gli ultimi impianti sono quelli a biomasse liquide, quelli cioè che usano combustibili liquidi derivanti da colture agricole, i cosiddetti oli vegetali da bruciare in alternativa ai combustibili tradizionali. Li troviamo in 274 comuni per una potenza complessiva di 828 MW. Una produzione in forte espansione (+19% annuo) ma che pone analoghi problemi sull’approvvigionamento e su come le culture estensive di piante per produrre olii tolgano terra ad altre produzioni, con un eccesso di consumo di suolo. Inoltre, come é ben noto, tali culture sono spesso in paesi del Terzo Mondo e in mano a gruppi multinazionali.
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