mercoledì 10 aprile 2013
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È Pier Luigi Bersani, il padrone di casa, a rompere il ghiaccio con il suo proverbiale accento emiliano: «Una cosa è sicura: io non voglio portare il Paese alla guerra civile, la gente non ne può più di scontri e litigi, vuole nomi che uniscano e segnino un cambiamento. Perciò ti dico chiaro e tondo che anche se non arriveremo ad un’intesa io farò autonomamente per il Colle una proposta non settaria, non divisiva, che non ti sia ostile. Penso sia il massimo che il Pd possa offrire in questo quadro politico. Però di governissimo non ne voglio sentir parlare. Abbiamo già dato tutti e due. Quella per l’esecutivo è una partita che devi lasciarmi giocare dopo a mani libere, senza intralci, per stanare Grillo e i populisti. Il voto è stato la Fukushima della politica italiana, non possiamo far finta che non sia accaduto nulla...».La premessa è una linea di sbarramento netto. Qui, è il senso del discorso di Bersani, si inizia a trattare seriamente sul Quirinale. E sul Colle ci si potrà anche rivedere di nuovo faccia a faccia, magari il 17, dopo le manifestazioni di piazza di Pd e Pdl fissate per sabato. Il governo, invece, è un’altra storia. E non riguarda il Cav, fa capire il segretario. Se non come «facilitatore», come leader che non usa il suo pacchetto di voti per paralizzare il tentativo al Senato. «Ma questo lo deciderai tu...», glissa il leader Pd per allontanare l’idea dell’"inciucio".Bersani parla e Berlusconi lo fissa negli occhi. Non riesce ancora a capire se si tratta di una trappola o di un’opportunità. Non si fida: le parole di Bersani allontanano per sempre lo spettro di Romano Prodi? Così sembrerebbe, a naso... Ma il prezzo da pagare, un esecutivo che non abbia nemmeno un uomo di sua fiducia in squadra, sembra salato. Perciò non è il momento di aperture definitive, né di chiusure nette. «La situazione del Paese richiede provvedimenti incisivi da prendere insieme», prova ad insistere il Cav. Ma dall’altra parte c’è un muro. E un senso di marcia obbligato verso il Colle. Così alla fine Berlusconi fa buon viso a cattivo gioco, e mette sul tavolo un’unica richiesta: «Se davvero vuoi un’intesa, allora dobbiamo assumerci l’impegno di votare il presidente della Repubblica al primo scrutinio, senza prestarci a giochetti».Dopo i 70 minuti di colloqui, il Cav non sembra soddisfatto. Nel corridoio sotterraneo che lo porta verso l’uscita laterale di Montecitorio appare incupito. Lascia parlare Alfano, non si espone. E in serata, in un vertice convocato a Palazzo Grazioli, esprime tutte le sue preoccupazioni sulla linea imposta dalle "colombe", dal segretario e da Gianni Letta, sulla necessità di separare Colle e governo. «Ha senso?», si chiede Berlusconi. Alfano replica: «Abbiamo alternative, visto che a Bersani mancano dieci voti per fare tutto da solo?».È una guerra di nervi. E anche sul metodo non c’è piena unità d’intenti. L’asse Bersani-Vendola vorrebbe provare a sparigliare con un nome che non si presti al gioco al massacro di M5S. Enrico Letta e lo stesso Berlusconi sono più "realisti": si ragiona su un politico esperto ma non compromesso con la guerra della seconda Repubblica. Franco Marini, ad esempio, nome sempre più unitivo, forse più di Giuliano Amato. O donne come Anna Maria Cancellieri e Paola Severino. O Pietro Grasso. Benché neghino, Bersani e Berlusconi vi hanno accennato. Il Cav - si dice senza conferme - avrebbe anche scherzato ipotizzando l’ascesa dell’uomo di Bettola al Colle.In serata il segretario vede e rivede il film del colloquio. Berlusconi fa altrettanto con i suoi. Entrambi cercano di raddrizzare la rotta in una direzione più utile per sé. E Bersani, tramite il fidatissimo Migliavacca, già fa giungere una nuova indicazione al Cav: «La mia rosa ve la presento il 17...». I timori e le diffidenze oltre le aperture. Venti anni di ostilità pesano. «Se adesso metto in giro nomi me li bruciano tutti...», dice tra i denti il leader pd. Il Cavaliere fa un ragionamento speculare: «Proveranno a mettermi spalle al muro all’ultimo secondo...».
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