sabato 31 luglio 2010
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«I numeri ci sono». È il mantra di Berlusconi da quando il dado con Fini è tratto. Lo dice a se stesso, lo dice agli stati maggiori del partito, radunati in serata per tracciare i molteplici scenari che si profilano con la nascita di "Futuro e libertà". E se non ci fossero? «Io dico che ci sono, ma se non ci fossero non ci sarà nessun governo istituzionale, nessun ribaltone. Anche Bossi è d’accordo con me». Ma non è su questa ipotesi che il premier vuole lavorare ora. Anzi, ritiene che il divorzio l’abbia alleggerito, che «il governo resta saldo, anzi oggi ha un’unità ancora maggiore», e che può lavorare sulle grandi riforme (giustizia, fisco, istituzioni).E poi ci sono i dati confortanti dei sondaggi che illustra ai vertici del Pdl a Palazzo Grazioli: in un’eventuale elezione Fini, se si presentasse da solo oggi, raccoglierebbe dall’1% al 3%. Dunque le sue chance non sono affatto invidiabili. Ma c’è comunque il problema di spiegare alla gente, che non sempre capisce, il perché della rottura. La colpa è stata loro, dei finiani «che hanno portato il virus della disgregazione». È per questo che «il Pdl ha ha perso la fiducia nel ruolo di garanzia del presidente della Camera». Dunque deve fare i bagagli da Montecitorio. C’è l’esempio autorevole di Pertini nel 1969. Dopo il fallimento della riunificazione tra Psi e Psdi, rimise il mandato. Ma tutti i gruppi parlamentari glielo riconsegnano.Fiammate contro l’ex leader di An. Seguite, però, da dichiarazioni concilianti per spegnere le fibrillazioni nel governo e nel Parlamento post-scissione. Punto primo, i ministri finiani restano nell’esecutivo perché «hanno lavorato bene». Punto secondo, rinunciare al discorso previsto in Senato sulla giustizia. Di tutto c’è bisogno tranne che di esporsi a nuove mitragliate dei fuoriusciti, dell’opposizione, dei media.A palazzo Grazioli, sorpreso dal fitto temporale estivo, ci sono i tre coordinatori nazionali, Denis Verdini, Sandro Bondi e Ignazio La Russa. C’è il portavoce Paolo Bonaiuti, il ministro degli Esteri Franco Frattini, i capigruppo di Camera e Senato Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, e il suo vice, Gaetano Quagliariello. «Le prossime settimane – promette – saranno di lavoro, le userò per rilanciare le priorità programmatiche e il partito. Fate anche voi altrettanto». È quanto aveva detto nel pomeriggio, con un audiomessaggio, ai "promotori della libertà" della fedelissima Michela Brambilla. Quelli che rappresentano la base elettorale alla quale il premier vorrebbe parlare sempre più senza filtri: la scelta della rottura è stata difficile «ma ormai inevitabile». L’ufficio di presidenza di giovedì sera dimostra, poi, che è stato il partito ad esprimersi, e non lui solo. Poi indica le colpe dei finiani: mentre il governo affrontava «con successo scelte difficilissime, alcuni eletti del Pdl, sempre sostenuti purtroppo dall’onorevole Fini, hanno lavorato in modo sistematico per svuotare, rallentare, bloccare il nostro lavoro. Peggio, hanno offerto una sponda ai nostri nemici», ad opposizione, magistrati rossi e stampa giustizialista. Bocchino e sodali avrebbero dunque dimostrato di essere «lontanissimi dalla nostra cultura liberale», e avrebbero cercato di «riportare in vita i metodi peggiori della Prima Repubblica».Ma è sempre alla poltrona di Montecitorio che il cavaliere punta con decisione, quasi con ostinazione: «Loro hanno detto che nessun presidente della Camera ha dato mai le dimissioni. Non è vero». Cita l’episodio di Pertini, «un grande uomo», e aggiunge: «Spero che possa insegnare a qualcuno il modo in cui ci si debba comportare». Poi di nuovo quel mantra per rassicurare il popolo azzurro: «Abbiamo i numeri per andare avanti». E ripropone alla base del partito quella «operazione verità» che ritiene necessaria per ripulire l’immagine del Pdl segnata da inchieste, polemiche e divisioni.
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