mercoledì 6 ottobre 2010
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È un «drammatico pendolo quello che in questo anno sta ondeggiando a Reggio Calabria: prima il procuratore generale Di Landro, poi il procuratore della Repubblica Pignatone, poi ancora Di Landro e ora nuovamente Pignatone». Non si ferma questo annus horribilis nel quale «la ’ndrangheta ha fatto cose nuove e totalmente diverse dal suo usuale comportamento». Così commenta Alberto Cisterna, magistrato calabrese e sostituto della Procura nazionale antimafia.Un drammatico crescendo. La riposta delle cosche alle inchieste è sempre più pesante. «Il bazooka è, in questo senso un vero e proprio marchio di fabbrica della ’ndrangheta – sottolinea Franco Mollace, sostituto procuratore generale –. Questa arma la conosco bene, ne ho trovate molte nelle mie indagini. Se prima poteva esserci qualche dubbio ora col bazooka ci dicono che tutto è tremendamente serio: "Possiamo colpirvi ovunque". Il perché è evidente, la nostra azione degli ultimi tempi provoca una reazione inusuale per le cosche».«È una sfida aperta della ’ndrangheta – analizza Giuseppe Crezzo, procuratore di Palmi, uno dei magistrati finti nel mirino delle intimidazioni –. È una strategia che contraddice le modalità delle ’ndrine, solitamente più attente a fare affari nel silenzio». E anche lui ne dà un’analoga spiegazione. «C’è una coralità di azioni di contrasto che non ha precedenti e che sta producendo risultati profondi. E questo provoca la reazione».Qualcosa che parte da lontano, da cinque anni fa, dall’omicidio il 16 ottobre 2005 a Locri del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. «È il momento del mutamento, con arroganza, con la certezza dell’impunità. Il punto di svolta dei rapporti tra ’ndrangheta e istituzioni», sostiene un investigatore calabrese. Ma perché da gennaio, da quella bomba davanti alla procura generale, nel mirino finiscono i magistrati? Sicuramente c’è un forte rinnovamento nei due uffici. Non sono più i "palazzi delle nebbie". Dove era possibile provare a disinnescare i processi. «Sono saltati meccanismi di garanzia – dice ancora Mollace –. Prima c’era la consapevolezza, forse la certezza di poter almeno limitare i danni. Ora non più».Forse le cosche temono qualcosa. Perché qualcosa sta accadendo. Inchieste importanti, che vanno a incidere sui rapporti col mondo politico e economico, tipici della mafia calabrese. Con quell’area grigia che con la ’ndrangheta ha fatto ricchi affari. Le recenti operazioni contro i clan Piromalli di Gioia Tauro, Alvaro di Sinopoli, Crea di Rizziconi, Pesce di Rosarno, Tegano e Serraino di Reggio Calabria, hanno inoltre cominciato a erodere quel consenso sul territorio fondamentale per le ’ndrine. Provocando incrinature inaspettate.Proprio Pignatone, tre giorni fa aveva annunciato: «Uno dei mafiosi ha deciso di collaborare ed è un fatto importante, perché in Calabria è raro». L’inchiesta è l’ultima sul clan Tegano, i suoi affari e il possibile condizionamento del voto alle ultime regionali. Non l’unico caso. Da alcuni mesi starebbe collaborando anche un importante personaggio delle cosche della Piana di Gioia Tauro.Cosche sotto pressione. L’operazione di ieri contro tutte le principali "famiglie" reggine, sia del Tirreno che dello Jonio, il ghota della mafia calabrese, va proprio in questo senso. Il bazooka è l’inquietante reazione. «Non è una coincidenza. Purtroppo è la conferma che lo sapevano in anticipo».
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