martedì 23 febbraio 2010
La vergognosa pagina su Facebook offre lo spunto per mettere in risalto l'atteggiamento di esclusione sociale contro le persone affette da trisomia 21: di fronte all'esito della diagnosi prenatale, nove donne su 10 scelgono l'aborto.
  • «Scoperti» e «cancellati», di M. Corradi
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    Oggi le reazioni all’assurdo gruppo di Facebook sono perlopiù solidali e indignate, ma non sempre la nostra società mostra sentimenti di accettazione verso le persone con sindrome di Down (SD). Senza elencare un lungo elenco di discriminazioni più o meno palesi che queste persone devono spesso sopportare, c’è un dato abbastanza significativo: nella stragrande maggioranza dei casi di fronte a una diagnosi prenatale di SD, la gravidanza si conclude in un aborto. Non sono opinioni, ma i dati che emergono dalle poche indagini scientifiche condotte sull’argomento, come il recente articolo pubblicato il 26 ottobre scorso dal British Medical Journal (2009; 339:b3794) che indica come Oltremanica nell’arco di vent’anni siano leggermente diminuite (meno 1 per cento) le nascite di bambini con sindrome di Down, mentre l’aumento dell’età materna ne faceva prevedere un incremento significativo (più 48 per cento): a essere aumentati altrettanto sono stati i test prenatali. E anche in Europa, secondo un’indagine del 2003, veniva indicato un calo nei nati tra il 1975 e il 1999 statisticamente significativo. In Italia l’incidenza dei bambini con SD è di circa 1 ogni 1000-1200 nati – secondo diverse valutazioni – cioè 500-600 bambini l’anno. L’indagine condotta da Joan Morris, docente di statistica medica all’Università di Londra, e da Eva Alberman, professore emerito, è significativa nella crudezza dei numeri. Vengono presi in esame i nati vivi con sindrome di Down e le diagnosi prenatali in Inghilterra e Galles tra il 1989 e il 2008, analizzando i dati del Registro nazionale di citogenetica della sindrome di Down. In un riquadro riassuntivo si indica che era già noto che le madri più anziane sono maggiormente a rischio di concepire bambini con la sindrome di Down, e che gli screening prenatali per la sindrome di Down sono più disponibili oggi rispetto ai primi anni Novanta. Quello che la ricerca aggiunge è che «il numero di diagnosi di sindrome di Down è cresciuto del 71 per cento (da 1075 nel 1989/90 a 1843 nel 2007/2008), mentre i nati vivi sono diminuiti dell’1 per cento (da 755 a 743), a causa degli screening prenatali e delle conseguenti interruzioni di gravidanza». Dal punto di vista demografico si osserva che «in assenza di screening prenatali e conseguenti aborti, il numero di nascite di persone con sindrome di Down sarebbe cresciuto del 48 per cento a causa della scelta dei genitori di far famiglia più tardi». Analoghi risultati ha ottenuto una ricerca condotta nel 2003 da Daniela Pierannunzio, Pierpaolo Mastroiacovo, Piero Giorgi e Gian Luca Di Tanna che ha preso in esame i dati relativi a 31 registri internazionali delle malformazioni congenite raccolti dall’International Clearinghouse for Births Defects monitoring Systems nel periodo tra 1974 e 2000. I risultati generali indicano che la prevalenza alla nascita totale è pari a 9,07 per 10mila nascite con un calo nel corso degli anni statisticamente significativo. In particolare si passa da 16,10 bambini con SD ogni 10mila nati nel 1975 a 6,09 nel 1999: un risultato «dovuto al corrispondente aumento di interruzioni di gravidanza a sua volta dovuto alla diffusione generalizzata della diagnosi prenatale». Si tratta di risultati che devono far riflettere ma che non possono stupire, se solo si ricorda il dibattito che ha preceduto (e seguito) l’approvazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita e la campagna referendaria. Il ritornello di chi sosteneva la necessità di effettuare la diagnosi preimpianto era per eliminare «alcune gravi patologie», quali appunto sindrome di Down (che non è una malattia), fibrosi cistica, talassemia. Inutile dire che, siccome cure per correggere la sindrome di Down non esistono, la «cura» si traduce in una eliminazione dell’embrione: anche perché – si sosteneva (e si sostiene), la donna poi può sempre abortire. E anche se la legge 194 non prevede affatto l’eliminazione del feto per motivi di discriminazione genetica, questo avviene spesso. Al punto che il clamoroso caso dell’aborto «sbagliato» nel 2007 all’ospedale San Paolo di Milano non ha sollevato nessuna onda di protesta. Era stato deciso di abortire selettivamente la gemellina con SD: un errore in fase di intervento portò invece alla morte di quella sana. Ma la bambina con SD fu eliminata con un secondo aborto. Recentemente sono stati assolti i medici che avevano compiuto l’intervento errato: non per violazione della 194, bensì per l’imperizia dell’operazione.
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