lunedì 2 novembre 2015
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Una pagina "storica", uno spiraglio che incrina il muro dell'omertà e apre a una ventata d'aria nuova su Bagheria e sulla vicina Palermo. Così magistrati della Direzione distrettuale antimafia e investigatori dell'Arma dei carabinieri valutano l'inchiesta che ha portato all'esecuzione di 22 provvedimenti contro boss e gregari di cosa nostra, 17 dei quali già detenuti per altri reati. "È il segno che i tempi sono cambiati. Imprenditori e commercianti finalmente si ribellano. È la breccia che ha aperto la strada per assestare un nuovo colpo a Cosa nostra", osserva il colonnello Salvatore Altavilla, comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Palermo, spiegando che "trentasei imprenditori hanno ammesso di avere pagato il pizzo. Alcuni di loro sono stati sottoposti a vessazioni per anni...". E in effetti, scorrendo le carte dell'inchiesta (alla quale hanno contribuito anche le dichiarazioni di un pentito, Sergio Flamia) emergono storie di racket iniziate, è il caso di dire, addirittura sul finire del secolo scorso. Come quella di un imprenditore di Bagheria che aveva iniziato a pagare il pizzo negli anni Novanta, quando ancora vigeva la lira. La "messa a posto" nei confronti dei boss, all'epoca, gli costava 3 milioni di lire al mese. Intimorito da minacce e soprusi, ha esaudito per vent'anni le esose richieste mafiose, accumulando debiti e riducendosi via via sul lastrico e finendo per dover chiudere l'attività. Solo a quel punto, ha deciso di ribellarsi, denunciando gli estortori dopo quattro lustri di silenzio. Insieme a lui, hanno rialzato la testa con coraggio altri 35 cittadini di Bagheria, comune alle porte di Palermo che per anni fu rifugio di uno dei capi di cosa nostra, Bernardo "Binnu" Provenzano. I mafiosi non risparmiavano nessuno, presentandosi alla porta di qualunque attività economica, anche piccola: dall'edilizia a negozi di mobili e di abbigliamento, ai negozi all'ingrosso di frutta e di pesce, bar, sale giochi, centri scommesse. Le indagini hanno evidenziato almeno 50 casi di estorsione, con una soffocante pressione esercitata dai boss che, dal 2003 al 2013, si sono succeduti ai vertici del clan. Tra le "ordinarie" storie di violenza ricostruire dai carabinieri, quella ai danni di un funzionario comunale dell'Ufficio tecnico di Bagheria, che avrebbe avuto contrasti con la cosca legati alla lottizzazione di alcune aree: per punirlo e spaventarlo, nel 2004 i picciotti di cosa nostra gli incendiarono la casa, sequestrando un collaboratore domestico. Minacce e vessazioni che in molti non hanno più voluto sopportare, dando vita a una spontanea "rivolta civile" che marca una piccola, ma significativa, svolta nel contrasto alla mafia, in un territorio dove da anni l'associazionismo anti racket, con la rete di "Addio Pizzo" in testa, invita la cittadinanza a sottrarsi al peso del giogo mafioso.
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