martedì 27 marzo 2018
La Caritas: importante farsi carico dei problemi che lasciano in patria.
840mila badanti con i nostri anziani. E tra 5 anni 50% di domande in più
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Le chiamano “donne con il cuore altrove”. Sono madri e mogli che vivono a migliaia di chilometri dai loro figli e mariti, e l’anziano che vestono, spogliano, lavano e nutrono non è il padre o la madre che un tempo le mise al mondo ma uno sconosciuto, nella cui intimità però devono fare breccia, a costo della propria. Da noi le chiamano badanti. In Italia sono già 840mila, tra regolari e irregolari, e la domanda aumenta, con la prospettiva entro il 2023 di un 51% in più di over 85enni nella nostra popolazione.

Madri col cuore altrove. «Il fenomeno si è diffuso un ventennio fa e allora ci sembrò la soluzione per due problemi, da una parte la via d’uscita dalla povertà per il migrante, dall’altra la risposta alle esigenze di tanti nostri anziani – spiega don Augusto Panzeri, responsabile della Caritas di Monza –. Con il tempo però ci siamo accorti di come l’universo badanti sia molto complesso, al punto da aver creato nuovi modelli di convivenza e aperto vere ferite sociali, le cui conseguenze pesano sul futuro nostro e loro. Occorre trovare al più presto soluzioni per il bene di entrambe le realtà, la famiglia italiana e quella delle donne venute da lontano...». Preoccupati solo dell’efficienza delle badanti che paghiamo, non ci chiediamo più insomma come abbiano potuto abbandonare in patria i loro stessi figli e come questa separazione scavi nei loro cuori, «eppure è un aspetto che dovrebbe interessarci molto – nota Giovanna Perucci, psicologa del Servizio anziani della Caritas di Monza –: che tipo di equilibrio possono avere nelle nostre famiglie donne, appunto, con il cuore altrove? Non si può essere frantumati e svolgere bene un lavoro di cura». Come Avvenire ha più volte documentato, tanti studi dimostrano che alle spalle si sono lasciate un vuoto affettivo ed educativo devastante, con bambini cresciuti nel migliore dei casi dal padre o dai nonni: «Questo è il primo problema. È giusto che, per venire incontro a una domanda sempre più esigente delle nostre famiglie, le badanti debbano rinunciare alla propria? » si interroga don Panzeri, ricordando che «non esiste una famiglia più importante del-l’altra, ed è inaccettabile che una affondi per tenere a galla l’altra».

Storie di simbiosi e di solitudini. Ma il secondo problema riguarda invece ciò che accade qui in Italia, dove le famiglie hanno aspettative molto alte «e a queste donne non chiedono solo un’assistenza, ma di prendersi sulle spalle un carico notevole di affetti. Spesso si chiede loro di sostituirsi ai figli, di sollevarli dagli obblighi». E a questo non tutte sono preparate, «per cui attese così forti sono a volte calpestate... Penso al caso attuale di una signora malata di Sla che aveva costruito un rapporto intenso con la badante quando questa curava il marito colpito da Alzheimer. Morto l’uomo, di fronte alla Sla la donna ha accettato un’altra offerta di lavoro e se n’è andata. La signora italiana si è sentita tradita: non ha perso un’assistente, ha perso quasi una figlia», continua il responsabile Caritas. Come a dire che quello della badante è più una missione che un mestiere, e come tale richiede da entrambe le parti una profonda riflessione finora mai avvenuta. Non di poco conto è anche il fatto che il luogo di lavoro è casa nostra, il centro delle relazioni e degli affetti. Proprio quelli cui la badante ha dovuto rinunciare... Quante volte vediamo l’anziano e la sua assistente passeggiare a braccetto, ma lontani mille miglia? Separati da lingua ed etnia, faticano anche a capirsi e a braccetto vanno due solitudini. L’uno sogna un vero familiare, esattamente come l’altra: «Quando ho nostalgia mi chiudo in me stessa, non ho più forze – racconta Natascia M.– , appena posso telefono a mia mamma, anche solo un minuto e sto già meglio». «Ma abbiamo raccolto anche belle storie di incontri, vere e proprie simbiosi dove uno ha salvato l’altro e viceversa», interviene Lucia Mariani, assistente sociale e referente dell’area anziani per la Caritas di Monza. Come è avvenuto in casa di Piero Tarticchio, che ha assunto una «donna peruviana di altissima onestà», Mercedes, per la moglie malata di tumore, accogliendola insieme al suo bambino. Morta la moglie, ha lasciato che entrambi restassero a vivere sotto il suo tetto, continuando a stipendiare la donna come cuoca e trattando il ragazzo come un nipote. O ancora il caso di Didina, rumena di 48 anni, che mandando a casa i soldi ha fatto laureare entrambe le figlie e ha assicurato loro un benessere altrimenti impossibile.

La generazione degli orfani bianchi. «Ma a che costo? Quanto ne vale la pena?», torna al punto Lucia Mariani. «Noi prendiamo le risorse di cura da altri Paesi e lì creiamo una generazione di bambini left behind, lasciati indietro, i cosiddetti “orfani bianchi”». Mezzo milione nella sola Europa dell’Est. E il ricongiungimento familiare, che può risolvere almeno il problema degli affetti, è causa di guai peggiori: «Porti qui ragazzini che non conoscono le mamme e impoverisci un Paese della propria gioventù. Inoltre in patria grazie ai soldi mandati dalla madre erano dei privilegiati, mentre in Italia sono ragazzi arrabbiati, si vergognano del suo lavoro umile e vogliono tornare indietro». Generazioni senza radici, al punto che – ha spiegato Natalia Tkachenko di Caritas Ukraine nel convegno 'Intrecci di famiglie', organizzato a Monza per individuare buone prassi – «noi scoraggiamo la partenza delle madri: i figli maschi ne soffrono particolarmente, hanno traumi psicologici che sfociano in timidezza, aggressività, disturbi della sessualità, immotivati sensi di colpa». D’altronde partire è un obbligo, se in Ucraina lo stipendio medio è di 100 euro al mese, «per cui l’80% delle emigrate desidera tornare, ma poi lo fa il 40%».

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