martedì 26 settembre 2017
Ai domiciliari il primo cittadino di Seregno, accusato di corruzione. Indagato l'ex assessore lombardo Mantovani. Infiltrazioni alla procura di Monza.
Così la 'ndrangheta comprava i politici. 24 arresti, anche un sindaco
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«Ogni promessa è debito, no?» dice al telefono il sindaco di Seregno Edoardo Mazza, intercettato al telefono con l’imprenditore Antonio Lugarà. Il sindaco ora è ai domiciliari con l’accusa di corruzione, il costruttore brianzolo arrestato nell’ambito della maxi inchiesta della Procura di Monza e della Dda di Milano sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Lombardia, che ha portato a 24 arresti, eseguiti dai carabinieri del comando provinciale di Milano.

Ogni promessa è debito, ma i debiti poi vanno pagati. «Per capire bisognava sentirlo, il sindaco, trattato come uno zerbino», dice il sostituto procuratore di Monza Antonio Bellomo. Mazza (Forza Italia e Lega), aveva avuto già il suo quarto d’ora di celebrità in diretta Facebook, presentandosi con un paio di forbici a commentare lo stupro di Rimini. La promessa da mantenere e il debito da pagare a Lugarà sarebbero, secondo l’inchiesta, la destinazione d’uso di un capannone industriale modificata con una variante al Pgt considerata inammissibile, i cui costi sarebbero stati aumentati ingiustificatamente, e l’ampliamento di una via pedonale, "funzionale a garantire un altro accesso ai parcheggi e alla zona scarico scarico".


Ciò in cambio del sostegno elettorale dell’imprenditore-faccendiere. Secondo la Procura di Monza e la Dda di Milano, Lugarà avrebbe procurato «consenso elettorale e appoggio politico durante la campagna elettorale del maggio-giugno 2015». Campagna in cui, sempre secondo i pm, avrebbe utilizzato «il canale preferenziale intessuto con Mario Mantovani», ex numero due di Regione Lombardia, per favorire la candidatura del sindaco.

«Se Mario decide, oh domani mattina decide e tu sei finito. Quello... Mario c’ha una potenza indescrivibile», dice ancora Lugarà, il trait d’union tra criminalità e politica: avrebbe avuto infatti frequentazioni e scambi reciproci di favori con esponenti delle cosche, tra cui Giuseppe Morabito, capo della locale di Mariano Comense, ai quali avrebbe chiesto interventi ad esempio per ottenere la restituzione di un quadro da un privato o la ricerca dei responsabili di un furto a casa della figlia (mica si chiamano i carabinieri per queste cose, si telefona alla ’ndrangheta). «Questione di convenienza – spiega il pm della Dda Ilda Boccassini –. Io mi rivolgo all’antistato per ottenere benefici sapendo perfettamente che agisco con persone legate alla criminalità organizzata. Oggi ciò è diventato sistemico, e posso dirlo dopo 7 anni di indagini sulla ’ndrangheta».


Due indagini collegate, quella della Procura di Monza e della Dda di Milano, che ieri ha portato i carabinieri del Nucleo investigativo a identificare anche Ignoto 23, che partecipò al summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano nel 2010 per decidere il sistema di potere della mafia calabrese al nord: ignoto 23 è Fortunato Calabrò, già coinvolto nel processo "Infinito". Due mondi intrecciati, ’ndrangheta e politica, con la prima sempre più violenta e spregiudicata e la seconda in posizione subalterna. «Gli imprenditori contigui alla mafia tendono a ottenere il totale asservimento degli amministratori alla criminalità» dice il procuratore aggiunto di Monza Luisa Zanetti. Completano il quadro dell’infiltrazione capillare: tre interdizioni a pubblici uffici, una talpa scoperta in tribunale a Monza, in grado di avvertire delle inchieste, e ancora, due medici degli ospedali di Monza e Seregno che si rivolgevano al faccendiere per avere primariati e trasferimenti tramite il contatto con Mantovani. L’ex vicepresidente della Regione ha detto di essere «parte lesa. Ora i pm mi ascoltino» ha detto in una nota.



«Sento dire ancora che la mafia al Nord è silente – ha sottolineato il pubblico ministero Alessandra Dolci, della Dda –. È così silente che compie pestaggi nei bar intimidire e subentrare nella gestione, a Cantù hanno sparato alla fiancata di una macchina dopo una discussione (in una faida tra il nipote del vecchio boss Salvatore Muscatello, Ludovico, e i Morabito di Africo). È così discreta la sua presenza che chi subisce le intimidazioni preferisce rivolgersi direttamente ai boss per risolvere i problemi». Insomma non c’è differenza tra ’ndrangheta al nord e ’ndrangheta. Un punto di vista su cui convergono, con diversa grammatica, gli stessi indagati: «Alla ’ndrangheta vogliono mettere in piedi a San Luca. Volevano fare la cosa tipo mafioso», dicono tra loro Massimo Salvatore Sculli e Rosario Sarcone, punti di riferimento mafia calabrese a Seregno e coinvolti nel traffico di cocaina, che non manca mai nelle inchieste di criminalità organizzata.

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