venerdì 5 aprile 2019
Intervista al cardinale arcivescovo della città distrutta 10 anni fa dal terremoto. «Il processo di rinascita richiede attenzione, rispetto, intelligenza e carità per stare vicino a chi ha sofferto»
L'arcivescovo dell'Aquila, cardinale Giuseppe Petrocchi

L'arcivescovo dell'Aquila, cardinale Giuseppe Petrocchi

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Non bisogna rimanere imbrigliati nella sofferenza del terremoto, ma fare in modo che questa diventi nuova energia seguendo l’esempio di Gesù. L’arcivescovo dell’Aquila cardinale Giuseppe Petrocchi, ieri ricevuto in udienza da da Papa Francesco, non nega che «il processo di recupero, di risanamento e di valutazione – questo è un deposito che da problema deve diventare una risorsa – è lungo e richiede figure attrezzate, non si improvvisa». Ma, ricorda, «richiede soprattutto un amore che sa pulsare all’unisono».

A che punto è la ricostruzione dell’anima terremotata degli aquilani?
Siamo ancora agli inizi: è dopo la prima fase traumatica che si comincia a percorrere le strade interiori, per cercare di incontrare ciascuno, come anche le comunità, nell’identità e nella storia che portano. Va tenuto presente, infatti, che il terremoto geologico e quello dell’anima hanno tempi diversi e modalità di espansione che si differenziano fortemente. Quando il terremoto geologico termina, si attiva lo sciame sismico interiore, che dura a lungo, decenni. Quindi non può essere calcolato con il calendario del terremoto che scuote la terra. Di conseguenza si può dire che la prima fase nell’accompagnamento del “terremoto dell’anima” sta nel cercare di raggiungere quei depositi di sofferenza, che si trovano sotto la soglia della coscienza e che spesso non è facile scoprire e aprire, perché si tratta di aree normalmente interdette. Dalla coscienza a queste cisterne profonde psichiche non si arriva in diretta, ma attraverso percorsi ripidi e spesso bloccati da cancelli. Per questo con immensa attenzione, rispetto, intelligenza e carità bisogna rendersi vicini, e possibilmente riuscire ad entrare in questi luoghi per condividere ricordi, emozioni, domande ed idee.
La prima terapia, infatti, è l’ascolto perché le persone hanno difficoltà a raccontarsi. La persona stessa trova difficile mettersi in contatto con il dolore che ospita in sé: spesso lo accantona perché questa sofferenza può diventare così intensa da destabilizzare la personalità e destrutturarla. Bisogna quindi aiutare la persona, accompagnandola a dialogare con questo patire che porta dentro, perché il dolore, anche se viene messo sotto chiave, continua ad agire. È come un materiale radioattivo: in modo invisibile e spesso non avvertito, fa danno e condiziona il pensiero, i sentimenti, le relazioni, il rapporto con il tempo.

Gli aquilani sono un popolo montanaro, resiliente, con una grande fede. Possono essere questi i mattoni su cui ricostruire la città?
Il carattere di un popolo è normalmente forgiato dalla sua storia e dalla geografia, perché l’ambiente che abita plasma il modo di rapportarsi con sé, con gli altri e con il territorio. La resilienza aquilana è legata a un ambiente severo e aspro, spesso ostile; gli abitanti sono quindi abituati a reggere le sfide e condizioni avverse. Però il carattere forte, se da una parte consente di rimanere in piedi di fronte agli urti e a eventi drammatici – come il terremoto –, dall’altra disegna psicologie introverse, perché si sa che il montanaro non parla volentieri di quello che lo agita nel cuore. Questo atteggiamento introverso non facilita il contatto della persona con il dolore che porta dentro, e non facilita il rapporto di condivisione interpersonale. Per questo bisogna avere un sovrappiù di intelligenza e di amore per farsi prossimi in senso fattivo; quando questo evento accade (ed è sempre segnato da una grazia speciale), c’è una sorta di liberazione e un riaprirsi alla vita con un’energia nuova. Il dolore non soltanto deve essere interiorizzato, ma va trasformato in una forza che edifica e dà nuovo coraggio.

Quale è il bilancio della ricostruzione di questi dieci anni. Si poteva fare di più?
La ricostruzione ha seguito due binari e due velocità. C’è la ricostruzione delle abitazioni civili, che si è mostrata più rapida ed efficiente, e quella pubblica molto lenta e poco capace di rispondere alle urgenze che venivano dalla popolazione. Questo “scompenso nel passo” è largamente dovuto all’impianto giuridico che è stato varato e che si è dimostrato, per molti versi, incapace di intercettare i bisogni della gente, traducendoli in termini progettuali ed operativi. A questo, si aggiunge il fatto che la burocrazia spesso ha determinato delle “paresi” procedurali. Se si fa un giro per le strade, e si osserva con attenzione, si vede che molto è stato fatto, ma tanto resta da fare. In questo “molto” c’è anche quello che dovrebbe essere già stato fatto e che non è stato compiuto. Insomma, c’è un bilancio con degli attivi, ma anche con deficit gravi. Basta pensare alla ricostruzione delle chiese, che è un capitolo dolente, perché ne sono state ricostruite poche e molte versano ancora in condizioni di degrado, sono ormai in stato di collasso. Se non si interverrà, bisognerà affrontare spese moltiplicate rispetto a quello che sarebbe stato necessario mettere in campo se i tempi fossero stati più rapidi e i percorsi più veloci.

Pensa al Duomo dell’Aquila?
Penso al Duomo, a Santa Maria Paganica, ma anche a tante chiese dei comuni limitrofi. Il terremoto, infatti, non si è avventato soltanto sulla città, ma anche nei centri intorno al capoluogo e nelle frazioni, dove queste ferite appaiono ancora più evidenti e gravi.

Lei parla sempre della necessità di una ricostruzione partecipata e comunitaria. Sarà davvero possibile?
Questa prospettiva mette in moto innanzitutto un impegno culturale. Bisogna imparare a pensare e ad agire come “noi”: l’individualismo, e la conflittualità che ne segue, costituiscono fattori di disturbo che influiscono negativamente. Non si deve dare per scontato il fatto che la gente, che abita una città o un borgo, sia di per sé già disposta a convergere e a fare squadra. Ci possono essere fattori, anche acutizzati dalla sofferenza, che mettono in primo piano i particolarismi, e qualche volta anche interessi troppo “perimetrati”, con la conseguenza che diventa difficile mettere al centro il bene comune e l’interesse generale. Bisogna educarsi per entrare in questo modo “corale” di intendere, di valutare e di fare. In tale orizzonte la Chiesa può e deve fare tanto, proprio perché è Famiglia, che vive una comunione: deve mettere a servizio della società in cui vive questa esperienza di convergenza e di coesione che dà la precedenza al bene di tutti, e proprio per questo riesce a fare il bene di ciascuno.

Quale messaggio vuole dare alla città per l’anniversario in questo tempo di Pasqua?
Agli aquilani chiedo di non rimanere imbrigliati nelle difficoltà e nelle sofferenze, che vanno riconosciute e non debbono essere impropriamente spinte nelle “periferie” spirituali e psichiche. Bisogna, infatti, trovare il coraggio per guardare in faccia ciò che non ci piace e che vorremmo non fosse mai successo. Proprio la Pasqua (che ci apprestiamo a celebrare) ci rivela che dentro ogni sofferenza e in tutte le difficoltà è entrato il Signore, che è diventato uno di noi e si è fatto carico della nostra condizione di precarietà e debolezza. E l’ha riscattata, perché essendo risorto, e avendo ucciso la morte, ci mette nella condizione di essere, come Lui, capaci di vincere il male. E quindi di vivere da risorti e rendere ogni croce un’occasione per entrare – con l’aiuto della grazia – in una pienezza più grande.

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