sabato 17 luglio 2010
Il pm Cisterna: nuovi strumenti per fermare gli affari delle cosche. Ogni regione deve dotarsi di un ufficio centralizzato attraverso il quale destinare i soldi per le opere pubbliche. Il certificato antimafia? Strumento superato: rinnovarlo o abolirlo.
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«In questo nostro Paese, purtroppo, dove ci sono i soldi, ci sono le mafie. È necessario prenderne atto. Non importa più che sia in Calabria, in Sicilia, a Milano o a Pordenone. Dove ci sono i soldi, ci sono le imprese che le mafie negli ultimi due decenni hanno messo in piedi. Abbiamo scoperto tardi il contrasto patrimoniale delle cosche: i risultati sono buoni, ma sono ancora insufficienti…». Il magistrato calabrese Alberto Cisterna si è occupato di ’ndrangheta sin dai primi anni novanta, in una squadra di pm che a Reggio Calabria coordinò fior di inchieste e catture di pericolosi latitanti. Oggi è sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia e, insieme ad altri colleghi, è stato incaricato di vigilare sul rischio di infiltrazioni criminali nella ricostruzione post - terremoto in Abruzzo. Perché laddove ci sono denari pubblici in ballo, ripete Cisterna, le mafie arrivano subito. E la maxi-operazione anti ’ndrangheta tra Lombardia e Calabria, coi suoi 300 arresti (ieri è stato confermato il carcere per il presunto super capo, Oppedisano), ne è solo l’ennesima conferma. «Bisogna intendersi su una cosa – spiega Cisterna –. La mafia al nord si rende invisibile, non percepibile. Se vogliamo guardare agli omicidi, alle estorsioni, qualcuno potrebbe anche dire che lì se ne registra un numero minore. Ma c’è un aspetto della ’ndrangheta e delle mafie in generale, quello delle infiltrazioni nell’economia, che pochi sembrano vedere. O, peggio, che molti non vogliono vedere…».Perché, dottor Cisterna? Perché i soldi non puzzano. Di questi tempi il denaro necessita alle imprese in crisi. E, perfino se arriva fuori dai circuiti bancari, è bene accetto. Ai soggetti che formalmente si presentano come investitori non si domanda dove abbiano preso i milioni di euro. Si accettano bonifici o finanziamenti estero su estero, si accetta tutto. È un problema grave, che dovrebbe pesare sulla coscienza del sistema bancario e finanziario del nostro paese, che non concedendo fidi o prestiti ragionevoli, lascia le imprese in balia dei riciclatori mafiosi.Di solito le inchieste arrivano dopo, quando gli appalti sono stati assegnati e i soldi sporchi ripuliti. Cosa si può fare per arrivare prima?I magistrati hanno ovviamente l’esigenza che i reati siano commessi, non possono perseguire solo la mera intenzione di compierli. Il fatto è che l’esigenza di prevenire, che dovrebbe appartenere ad altre amministrazioni, ancora oggi fa i conti con difficoltà organizzative e norme inadeguate. Può fare un esempio?Uno per tutti è la  certificazione antimafia richiesta alle imprese. Uno sbarramento aggirabile e per questo ormai palesemente inefficace. Bisogna rimodularlo per renderlo più ostico, più aggressivo nei confronti delle imprese in odore di mafia. Oppure buttarlo a mare.Ci sono altri strumenti pratici che possono essere adottati? Guardi, in Italia ci sono 80 miliardi di euro in opere pubbliche aggiudicate ogni anno, tra forniture,  servizi e appalti veri e propri. È il settore principale da monitorare, con soluzioni che già ci sono. Ad esempio, la stazione unica appaltante creata in Calabria è uno strumento che, attraverso il nuovo piano straordinario antimafia, il governo intende estendere all’intero Paese. Non è però l’unico strumento. La verità è che il settore degli appalti è un settore delicatissimo, nel quale quotidianamente molti operatori segnalano anomalie di tutti i generi. Perciò, bisogna fare uno sforzo in più
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