martedì 15 febbraio 2022
L’alta copertura vaccinale nelle case di riposo ha garantito buoni livelli di protezione. Per far fronte all’uscita di camici bianchi, l’idea è quella di rivolgersi a professionalità straniere
Rsa, porte ancora semichiuse. «L'emergenza è il personale»

Ansa

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La curva dei contagi si sgonfia, l’incubo Covid sembra allontanarsi ma quale futuro aspetta le Rsa, finite nell’occhio del ciclone, per i diffusi focolai, durante la fase acuta della pandemia? Intanto le strutture per anziani rimangono parzialmente chiuse e i rapporti con l’esterno ancora sottoposti, per prudenza, alle regole stabilite per garantire la sicurezza degli ospiti e fronteggiare al meglio la quarta ondata, che sta per finire.

Familiari dei degenti, gestori e operatori vogliono sapere cosa accadrà dopo lo stato di emergenza sanitaria, che scade il 31 marzo, se non verrà prorogato. Ma «i 24 terribili mesi della pandemia hanno fatto esplodere in modo violento ed immediato le criticità del sistema che già esistevano prima» denuncia Patrizia Scalabrin, presidente di Uneba Veneto e della Fondazione Santi Antonio e Michele di Fonzaso, in provincia di Belluno. «La presa in carico degli ospiti – precisa Scalabrin – è più rivolta ora alla cura e alla sanitarizzazione, le persone che accogliamo sono affette da patologie e cronicità e ciò implica una maggiore specializzazione da parte degli operatori, ma anche una rivisitazione delle funzioni delle strutture per gli anziani e, più in generale, una revisione dell’intero ordinamento che regola la Sanità nel nostro Paese, un Sistema Sanitario Nazionale vecchio ormai di 30 anni». «C’è una graduale ripartenza ma bisogna alzare lo sguardo – incalza Franco Massi, presidente nazionale Uneba – anche verso le prospettive economiche, che non sono affatto rosee per via dell’aumento dei costi dell’energia e delle minori entrate provocate dal blocco dei nuovi ingressi, situazione che però è in lenta ripresa: le liste di attesa sono ancora lunghe e non si riescono ad utilizzare nell’immediato tutti i posti letto disponibili». C’è, però, chi auspica un superamento dell’attuale sistema di assistenza delle Case di riposo per puntare tutto sulla domiciliarità, anche dei non autosufficienti. «Ma il ruolo delle Rsa rimane essenziale e insostituibile – sostiene Massi –. Qui, infatti, al primo insorgere di un evento scatta l’allarme e si riesce a intervenire subito, cosa che a domicilio non sempre succede, anche per la scarsità del numero di medici di base sul territorio». «Ma non dobbiamo dimenticare la legge sulle non autosufficienze – conclude il presidente Uneba – che deve essere approvata in via definitiva al più presto: speriamo si risolva la questione della primogenitura tra i settori Salute e Lavoro...».

«Il Pnrr prevede uno stanziamento di circa 400 milioni di euro – ricorda Fulvio Sanvito, direttore della Cooperativa La Meridiana di Monza –: è una cifra decisamente insufficiente rispetto ai bisogni di perfezionamento di questo servizio, poi c’è la sfida della complessità e quella della burocrazia. È necessario – spiega – uno snellimento delle procedure e far sì che medici e operatori sanitari svolgano compiti sempre più inerenti alla cura: le Rsa rappresentano un patrimonio da custodire, difendere e migliorare, perché smantellare il servizio o indebolirlo è pura demagogia». «Il Covid ha provocato grandi fatiche, difficoltà, demoralizzazione, paure, stanchezza – aggiunge Roberto Mauri, presidente de La Meridiana – ma allo stesso tempo cogliamo nuove opportunità: stiamo lavorando per trasferire più autonomia e più responsabilità ai centri di servizio. Oltre che prendersi cura degli anziani, vogliamo aumentare l’attenzione ai familiari e agli operatori sanitari. Inoltre, stiamo ristrutturando un immobile per candidarci a creare un ospedale di comunità con 20 posti letto».

Intanto l’Istituto superiore di sanità ci fa sapere che nel mese di gennaio «l’impennata dei contagi nella popolazione generale ha avuto un riflesso anche nelle strutture residenziali per anziani» anche se «il tasso di decessi e ricoveri è rimasto a livelli molto bassi grazie all’ampia copertura vaccinale relativa anche al booster». Nell’ultimo report sulle Rsa, l’Iss riferisce un picco del 4% dei casi di positività (nella stragrande maggioranza asintomatici) rilevato il 17 gennaio come effetto della nuova spinta epidemica caratterizzata dalla variante Omicron. Già a settembre gli ospiti di tutte le Case di riposo prese in esame dalla rilevazione dell’Istituto che avevano ricevuto due dosi era del 93% mentre a metà dicembre – sottolineano gli esperti – l’80% era coperto da booster o addizionale. Comunque, la situazione sembra sotto controllo ovunque, grazie soprattutto alle misure anti-contagio ancora in vigore in molti istituti di ricovero nei quali sono vietate le visite dei parenti, anche se vaccinati o con tampone negativo. Non c’è mascherina Ffp2 né distanziamento fisico che tengano, dunque: porte semi-chiuse quasi dappertutto, per il momento, nelle circa 4mila residenze per anziani presenti in Italia, con relazioni limitate alle stanze degli abbracci o “incontri ravvicinati del primo tipo” (cioè dietro un vetro o una barriera di plexiglas) e su appuntamento programmato, come unica possibilità di approccio affettivo con i degenti, a parte le videochiamate, divenute ormai la forma più diffusa di contatto possibile tra degenti delle Rsa e loro familiari. «Ma questa situazione non piace a nessuno, nemmeno a noi» precisa Fabrizio Giunco, direttore del dipartimento cronicità della Fondazione don Gnocchi. «Con il 100% di vaccinati a ciclo completo tra ospiti e personale delle 6 strutture presenti in Lombardia per un totale di 1.600 posti letto – afferma – stiamo pensando a una riapertura vera in tempi ragionevoli, per tornare, speriamo a fine primavera, in accordo con i familiari degli ospiti e seguendo le disposizioni di Regione e Ats, a qualcosa che assomigli il più possibile a quello che era prima della pandemia». «E va detto che nelle nostre Residenze socio-sanitarie – aggiunge Scalabrin – la relazione con i parenti è sempre molto positiva, perché capiscono le difficoltà legate alla pandemia e sono riconoscenti del lavoro che stiamo svolgendo».

L’emergenza più grave resta quella della carenza di personale. «Servono più medici, infermieri, operatori socio-sanitari, e servono più risorse finanziarie – dice Giunco – altrimenti il sistema non si reggerà più, anche perché con l’invecchimento della popolazione aumentano i bisogni di assistenza, su tutti i fronti, Rsa, Centri diurni, servizi socio-sanitari sul territorio». In sostanza, gli organici, già insufficienti (manca il 20% circa di addetti), sono stati impoveriti da chi in questi mesi ha deciso di andare a prestare servizio negli hub vaccinali (e non si sa se tornerà nei reparti), molti infermieri si sono dimessi per andare a lavorare negli ospedali o all’estero, dove lo stipendio è migliore. «Per far fronte alla mancanza di personale nelle strutture – annuncia Massi – abbiamo deciso come Uneba, insieme ad altre associazioni di settore, all’Ufficio pastorale della Salute della Cei e in collaborazione con i ministeri competenti, di far venire in Italia infermieri provenienti dai Paesi extracomunitari, accelerarne l’ingresso con i permessi di soggiorno, promuovere un percorso di formazione e assicurare assunzioni almeno per tre anni». La carenza di addetti riguarda però anche manager e amministrativi. «Da tre anni all’Università di Verona è stato attivato un corso di perfezionamento in Management dei sistemi per i servizi sociali e sociosanitari il cui obiettivo – spiega Scalabrin, che è membro del Comitato scientifico – è formare nuove competenze per fare impresa al meglio, con un occhio ai conti e uno alle persone».

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