martedì 7 maggio 2013
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Giulio Andreotti, scomparso ieri all’età di 94 anni, è stato certamente il protagonista più longevo della storia politica e istituzionale del nostro Paese, con un’intensa carriera senza precedenti (tanto da farlo ritenere intramontabile agli occhi dei suoi amici ed avversari presenti in tutti gli schieramenti fino a pochi mesi fa). Andreotti ha infatti vissuto direttamente tutte le stagioni, con alti e bassi, che hanno contrassegnato il percorso della Prima e della Seconda Repubblica (termine quest’ultimo che non ha mai condiviso) e da cronista appassionato ma distaccato (e con abbondante ironia) le ha annotate nei suoi mitici taccuini, parte pubblicati e parte inediti, fitti di uomini, episodi, incontri, colloqui, "sorprese", avvenimenti nazionali e internazionali, fino ad assumere attraverso i tanti passaggi attraversati (politici ma anche personali) il ruolo di biografo di un Paese che dal dopoguerra ad oggi è profondamente mutato fino a collocarsi tra le più solide democrazie occidentali.In questo cambio di pelle, Andreotti, forte del crescente consenso degli elettori espresso in tutte le consultazioni (fino alla sua nomina a senatore a vita nel 1991) ma segnato anche da critiche feroci, spesso contraddittorie tra di loro, sia dall’interno della Dc sia dai partiti avversari, si è mosso con un pragmatismo ben compendiato nella famosa battuta: "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia". Dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (nel quale aveva votato per la monarchia) alla dissoluzione del vecchio sistema partitico; dai governi centristi a quelli con i socialisti (con la parentesi agli inizi degli anni 70 del governo Andreotti Malagodi) alla solidarietà nazionale; dagli esecutivi del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani) alla scelta europeista in stretta solidarietà con gli Stati Uniti (di qui la critica di essere legato a filo doppio con gli Usa e di essere insieme uomo del Vaticano, per i suoi rapporti con la Santa Sede); dai primi scandali finanziari (da Giuffrè a Sindona) al "piano Solo", al golpe Borghese, alla P2 e alla stagione tragica del terrorismo (con il rapimento e la morte di Aldo Moro e di altri esponenti politici e della società civile); dagli anni di Tangentopoli, che segnarono la fine dei partiti, alle stragi mafiose con le accuse di favoreggiamento e relativi processi e relative assoluzione, che lo avrebbero coinvolto per anni (indagini dalle quali Andreotti non si è mai sottratto dichiarando sempre la sua fiducia nella magistratura) limitandosi a commentare con amaro distacco che «a parte le guerre puniche, mi è stato attribuito di tutto»: il nome del "divo Giulio" è sempre stato tirato in ballo. Il suo cursus honorum è più che nutrito. Deputato ininterrottamente dal 1948 al 1991 ("ho sempre avuto un ottimo rapporto umano con gli elettori. Nel Lazio non avevo concorrenti temibili, anche perché me ne occupavo dalla mattina alla sera"); sottosegretario alla presidenza del Consiglio a 28 anni, voluto dal suo maestro De Gasperi, (che gli affidò tra il 1947 e il 1950 la delega per il cinema); sette volte presidente del Consiglio, titolare nel corso degli anni di più dicasteri (Difesa, Esteri, Finanze, Bilancio, Industria, Interno, Beni Culturali, Tesoro), che gli consentirono una indubbia conoscenza della elefantiaca macchina burocratica anche nei suoi ingranaggi più delicati, era accompagnato dalla fama di gran conoscitore dei maggiori segreti dello Stato nei momenti più difficili della storia repubblicana, che Andreotti avrebbe liquidato con una battuta: «Un po’ di vita interna dello Stato la conosco. Molti segreti no, qualcuno sì, ma me li tengo per me». Fu molto meno uomo di partito, anche se è stato presidente dei deputati dc, presidente della commissione Esteri della Camera, parlamentare europeo per due legislatura e infine senatore a vita. Con questa nomina aveva in un certo senso allentato la sua presenza politica, ma non si era rinchiuso nel ruolo di notabile, facendo le sue battaglie nella difesa piena del nostro sistema parlamentare che riteneva, contro le crescenti tentazioni plebiscitarie, il più adatto a favorire il confronto costruttivo tra le forze politiche secondo il metodo di De Gasperi. Pur giocando un ruolo, talvolta determinante, nella vita della Democrazia Cristiana, Andreotti non ha mai puntato alla segreteria del partito, ma in più occasioni ha fatto valere il peso della sua corrente forte soprattutto in alcune regioni come la Sicilia con alleanze e scelte discutibili di uomini che sono state in parte all’origine delle sue disavventure giudiziarie.Alla luce di questo corposo curriculum, giustamente Cossiga, in occasione del novantesimo compleanno del senatore a vita, aveva affermato: «Non ho mai visto un uomo con tali capacità di governo». In realtà, nel finire degli anni 30 del secolo scorso, la politica sembrava non interessarlo. Sarebbe stato ruvidamente De Gasperi, allora impiegato nella biblioteca vaticana ma che già tesseva la fila per il dopo fascismo, a strattonarlo, parendogli incredibile che l’allora dirigente fucino si impegnasse in una tesi sulla marina pontificia. «Ma lei non ha molto di meglio da leggere o da fare?». Proprio l’associazionismo cattolico, e in particolare la Fuci, della quale sarebbe divenuto presidente nel 1942 succedendo a Aldo Moro chiamato alle armi, sarebbe stato il volano del lungo impegno civile e politico dei cattolici italiani chiamati ad assumere compiti nuovi nella fase che si sarebbe aperta con la caduta del regime. Andreotti in contatto con i vecchi "popolari" lavorava, durante l’occupazione nazista di Roma, all’edizione clandestina del Popolo (giornale per il quale sarebbe divenuto nel dopoguerra giornalista professionista) assumendo ruoli dirigenziali nel movimento giovanile dc e nell’organizzazione del partito, sempre al seguito di De Gasperi fin dalla battaglia elettorale per il referendum istituzionale e l’Assemblea costituente. E da allora avrebbe sempre fatto politica. La sua, a scorrere la sua azione di governo, è stata una gestione non tanto ideologica, bensì realistica e graduale, anche negli anni della contrapposizione frontale tra i partiti e tra Est Ovest, senza indulgere alle riforme da fare a tamburo battente: «Perché – aveva dichiarato – ci sono pazzi che credono di essere Napoleone e pazzi che credono di poter risanare le ferrovie dello Stato... Sono persona consapevole dei miei limiti, ma sono sicuro di non vivere in un mondo di giganti». Nasceva da qui anche il suo "trasformismo" sulle alleanze da fare o disfare. Quando al congresso di Napoli del 1962, Moro con un discorso di oltre sei ore aveva impegnato il suo partito nell’apertura ai socialisti di Nenni, Andreotti aveva definito l’intervento del segretario come l’enciclica "cauti connubii" del nuovo corso politico. Ma anche per lui l’unità del partito era un valore indiscutibile, per nel dissenso delle diverse componenti. Adesso che ha concluso la sua lunga battaglia politica, sono in molti a ritenere che abbia interpretato come pochi le aspirazioni degli italiani. Nel bene e nel male. Il giudizio, come è normale in questa sua vicenda, è controverso. Saranno i politologi e gli storici a dire la loro. E avranno a disposizione il molto materiale da lui raccolto, per completare la biografia dell’Italia.
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