venerdì 8 gennaio 2010
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La popolazione invecchia e que­st’anno saranno 35 milioni i malati di Alzheimer nel mon­do. La cifra, che supera del 10% le già preoccupanti previsioni formulate nel 2005 dall’associazione Alzheimer Disease International, ha portato la prestigiosa rivista Lancet Neurology a definire il disturbo come «la sfida globale del XXI secolo». I casi di de­menza sono destinati a raddoppia­re nei prossimi 20 anni, fino a oltre­passare abbondantemente il tetto dei 100 milioni nel 2050. Il proble­ma – sottolinea su Lancet Jean Fran­cois Dartigues dell’Università di Bor­deaux – è che «la quantità di casi non diagnosticati e la mancanza di regi­stri nazionali come quelli istituiti per tumori, malattie infettive o disturbi cardiovascolari potrebbe far risulta­re questi numeri di molto inferiori alla realtà del fenomeno». Dichiarato dal Parlamento europeo «priorità di salute pubblica», l’Alzhei­mer interessa nel Vecchio Continen­te, insieme alle altre demenze, più di 7 milioni di persone. Secondo la Fe­derazione Alzheimer Italia, nel no­stro Paese soffrirebbe del morbo ad­dirittura il 20% della popolazione al di sopra dei 65 anni, in pratica due persone ogni dieci, per un totale – come stima il Censis – di circa 520.000 pazienti nel Paese, pari a un’incidenza di 80.000 nuovi casi l’anno, destinata a crescere a 113.000 nel 2020. In Italia il costo annuo per paziente, comprensivo sia dei costi sostenuti dalle famiglie sia di quelli a carico della collettività, è stimato in 60.000 euro, rispetto ai 13.000 euro mediamente sborsati dagli altri Pae­si ad alto reddito. A livello mondiale i costi sociali complessivi della de­menza vengono stimati dal Karolin­ska Institute svedese in circa 220 mi­liardi di euro l’anno. Ma che cos’è l’Alzheimer? È una ma­lattia del cervello descritta per la pri­ma volta nel 1906 dal neurologo te­desco Alois Alzheimer, dal quale ha preso il nome. Principale causa di demenza ( oltre il 70% dei casi), in termini tecnici è una patologia neu­rodegenerativa complessa e multi­fattoriale i cui meccanismi di svi­luppo non sono ancora completa­mente chiariti. Gli unici trattamenti oggi disponibili agiscono solo sui sintomi e non vengono sommini-­strati se non in fase avanzata del de­corso della malattia, quando i di­sturbi cognitivi vanno a interferire con la vita quotidiana al punto da spingere la persona o un familiare a rivolgersi a uno specialista. «Dal momento della diagnosi al ter­mine della vita restano in media 10 anni, ma la variabilità individuale è ampia, con pazienti che vivono me­no di 5 anni e altri più di 20», spiega Giovanni Frisoni, neurologo del-­l’Irccs Fatebenefratelli di Brescia, u­no dei maggiori studiosi italiani del­l’Alzheimer. I sintomi iniziali sono generalmente lievi e limitati ai soli disturbi di memoria, ma la loro gra­vità progredisce col tempo fino a e­stendersi a tutto lo spettro cognitivo e della personalità. Agli iniziali di­sturbi di memoria possono infatti seguire problemi di linguaggio, di­sorientamento spaziale e tempora­le, difficoltà di attenzione e di ragio­namento, confusione, unite ad alte­razioni evidenti del comportamen­to quali ansia, irritabilità, agitazio­ne, apatia, che vanno pian piano a creare problemi nel quotidiano, ren­dendo la persona incapace ad e­sempio di gestire il denaro e l’as­sunzione dei farmaci, di occuparsi delle faccende domestiche, di pren­dersi cura della propria igiene, di ve­stirsi e di mangiare. La diagnosi clinica dell’Alzheimer i­noltre non è facile: avendo una sin­tomatologia simile alle altre demen­ze ( ad esempio quelle associate ai disturbi vascolari, al Parkinson, alla depressione, alle carenze alimenta­ri), ancora oggi nessun tipo di inda­gine 'in vita' consente di discrimi­nare con certezza fra Alzheimer, al­tre forme di demenza e normale in­vecchiamento. Anche quest’ultimo infatti comporta modificazioni a ca­rico delle funzioni cognitive e pro­cessi biologici analoghi. Ma l’anzia­no 'sano' è ancora in grado di uti­lizzare strategie efficaci di compen­sazione e di adattamento, attingen­do al patrimonio di risorse cogniti­ve accumulate nel corso della vita. « Questo patrimonio, chiamato ri­serva cognitiva, può rivestire un ruo­lo importante come fattore protetti­vo – spiega Rossana De Beni, pro­fessore ordinario all’Università di Pa­dova e presidente della Società ita­liana di psicologia dell’invecchia­mento (Sipi) – : quanto maggiore è tale riserva, tanto più efficaci saran­no le strategie di adattamento e di compenso sviluppate». L’Alzheimer viene anche definita una 'malattia insidiosa' perché, quando i sintomi si manifestano, il processo patologi­co sottostante ha già operato profon­damente e per lungo tempo. Lo svi­luppo delle caratteristiche placche senili, i depositi di amiloide, la pre­senza di aggregati proteici anomali all’interno dei neuroni, la morte di questi ultimi unita alla riduzione del­le sinapsi (i contatti fra i neuroni che consentono lo scambio dei segnali), ha infatti inizio decenni prima del­l’insorgenza dei sintomi, più o me­no intorno ai 40 anni. È per questa ragione che «solo una diagnosi precoce e un trattamento presintomatico potrebbero drasti­camente ridurre l’incidenza e la pre­valenza dell’Alzheimer», spiega Pe­ter Lansbury, della Harvard Medical School, che ha recentemente curato uno speciale di Nature sull’argo­mento. «Agendo per tempo sul pro­cesso patologico – dice Lansbury – si riuscirebbe a rallentare il declino co­gnitivo quanto basta per differire nel tempo la comparsa dei disturbi fun­zionali ». Una strategia quantomeno astuta, se ancora oggi non c’è una cura per la malattia. Dunque, screening ad ampio rag­gio della popolazione per i fattori di rischio più comuni? « Certo, ma pri­ma pensiamo ad assistere i malati e le loro famiglie, poi anche a tutto il resto – risponde Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazio­ne Alzheimer Italia –. Le Unità di va­lutazione Alzheimer ( Uva) sono di­ventate in gran parte meri sommi­nistratori di farmaci... Servono in­vece un coordinamento dei servizi sul territorio e interventi di forma­zione destinati agli operatori, vista la complessità della malattia, non riducibile alla sola componente bio­logica. Si pensi che fino al 75% di chi si prende cura dei malati sof­frono di depressione e altri distur­bi psicologici» .
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