sabato 3 gennaio 2009
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La vigilia di Nata­le non ce l’aveva proprio più fatta a tenerselo sullo sto­maco: «Si parla tanto del caso di Eluana – a­veva detto – e noi di ' Eluane' ne abbiamo molte. Nonostante non se ne parli, la spi­na noi non la stac­chiamo». Monsignor Vinicio Albanesi gui­da la Comunità di Capodarco, che di don­ne e uomini nello stesso stato vegetativo di Eluana Englaro ne segue tre ( oltre a decine e decine di disabili gravi e gravis­simi in condizioni fors’anche peggiori). Tre persone che vivono nella comunità e «in mezzo a noi», assistite ventiquattr’o­re su ventiquattro, seguite da una nutri­ta cerchia di medici. E che erano entrate lentamente o improvvisamente in stato vegetativo. Perché mai «non staccate la spina», don Vinicio? Perché una persona in stato vegetativo è come un neonato, che non può difen­dersi, che non riesce a esprimere desi­deri e comunicare. Quindi è la persona più fragile che possa esistere al mondo.  Persona? Come si può definirla tale? Cos’altro è o dovrebbe essere? Non so, un essere sceso dalla luna o una specie di ' corpo estraneo'? Su, come si fa a non parlare di persona? Forse è che la loro vita non ha più una dignità tale da essere vissuta? Stiamo scherzando o cosa? Eluana non ha creato relazioni? Non sta creando re­lazioni? Non è una presenza umana? Chi, poi, può dire fino a giurarlo che lei non abbia canali comunicativi? Resta però lo stato vegetativo Lo stato vegetativo è uno stato nel quale esternamente e cerebralmente non si manifestano reazioni, non si risponde, non si comunica. Però si vive. Si respira. E noi non conosciamo tutti i livelli di co­noscenza e sensazioni che una persona ha seppure non riesca ad esprimerli al­l’esterno. Don Vinicio, basta insomma respirare per essere vivi? Quando il suo cuore batte da solo, la sua carne è calda, i suoi polmoni sono capa­ci di respirare e lei di aprire e chiudere gli occhi, una persona è morta? Non scher­ziamo, davvero. Nemmeno quando le probabilità che si risvegli sembrino bassissime? Le dico molto di più, a me non interessa affatto se si risveglierà o meno, o calco­lare quante sono le probabilità che lo fac­cia: io l’accudisco perché è viva e perché le voglio bene. Le persone sono abituato ad accompagnarle al cimitero quando sono morte e non prima. Molti però direbbero che lei, così, si per­mette di ledere la libertà che ognuno do­vrebbe avere di farsi ciò che vuole. Quando uno lotta per la vita, lo fa perché la ritiene ancora bella, utile e degna di essere vissuta: è quando si sente che la propria lotta è finita, fisicamente, pro­prio fisicamente, come in un malato ter­minale, che allora è un’altra cosa. Cioè quel che avrebbe voluto Eluana? No. Quel che dice il padre di Eluana. Se una delle vostre persone in stato ve­getativo le avesse detto, qualche anno fa, «se dovessi finire in quelle condizio­ni, staccami qualsiasi macchina o togli­mi nutrimento e idratazione», lei che a­vrebbe fatto? Non le avrei dato retta. E perché? Non mi si può chiedere questo. Sarebbe come se uno dei nostri tossici mi dices­se «dammi i soldi per comprarmi la dro­ga» . Io aiuto le persone. Poniamo allora che sia un malato ter­minale a chiederle di essere lasciato mo­rire: lei che farebbe, don Vinicio? Lo accompagnerei alla morte senza in­fierire su di lui: senza mantenerlo in vita ad ogni costo con mezzi spropositati. Senza accanimento terapeutico. Anzi, a quel punto, credo che si abbia ogni diritto ad avere una preghiera per la buona mor­te. Ecco, a proposito: nutrizione e idrata­zione secondo lei sono un ' accanimen­to terapeutico'? No, affatto: sono semplicemente neces­sarie alla sopravvivenza. Sa cos’è l’acca­nimento terapeutico? Ne vuole un e­sempio? Quando qualcuno sta morendo a volte gli iniettano la dopamina, che fa pulsare qualche ora in più, meccanica­mente, il cuore e basta. Questo non sembra esser troppo rispet­toso del diritto alla morte. È evidente che non lo sia. Il punto è che dobbiamo imparare a rispettare anche il diritto alla vita. La morte, don Vinicio, non fa parte del­la nostra storia personale? Certo, ma quando è esaurita la vita. Ri­peto: se un malato è terminale di cancro, cerchi di non farlo soffrire e lo accom­pagni fino al momento della morte. E quest’ultima non è uno ' scandalo': fa parte della naturalità della nostra vita. Alla sua fine.
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