mercoledì 25 agosto 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
«Se ad essere bruciati sono tuo padre e tua madre». Se il bambino soldato che spara all’impazzata «è tuo fratello minore». Se la tua famiglia, gli amici, la tua città «sono stati spazzati via da un terremoto, basterà guardarti allo specchio per vedere che faccia ha il dolore». Quel volto che i sopravvissuti alla guerra civile dell’Uganda, alla miseria di strada nei villaggi del Camerun, al micidiale sisma di Haiti, hanno visto per lunghi momenti.«Mio padre e mia madre sono stati bruciati. Il mondo aveva acquistato per me i colori del buio totale: vivevo nel terrore della morte». George William Emalu è ugandese. Pensava di impazzire. Come Cesar Nyeko: «Mio fratello frantumava pietre nella cava e l’unica vita che conoscevamo era quella del villaggio. Fatica, malattie, povertà e morte». Nel gigantesco fosso dove centinaia di schiavi ricurvi picchiano dall’alba al tramonto sui grandi massi chiari, «c’erano anche delle donne che lavoravano la pietra cantando e ballando». Chi può sentirsi felice nella fame, nella malattia, nella miseria? «Soltanto delle stupide donne di uno stupido villaggio. Sono ubriache - pensavo -, o le loro teste non funzionano bene». Pazze, in una parola. Tutto sommato Cesar c’è andato vicino. «Pazze di gioia, perché grazie al Meeting Point di Kampala avevano scoperto quello che a me mancava». Merito di Rose Busingye, la donna che dirige il centro promosso da Cl in Uganda. Cesar ha esitato a lungo. «Rose mi aveva offerto la possibilità di tornare a studiare, ma come potevo avere una vita senza i miei genitori? Perché mai avrei dovuto andare a scuola se la vita è soltanto sopravvivere e morire?». Tempo sprecato in un mondo «nel quale la gioia non esiste. Esistono solo il male e i matti». Invece George e Cesar ce l’hanno fatta. Per comprenderne il segreto bisogna ascoltare un’altra voce africana. Quella di Mireille Yoga, educatrice del centro Edimar di Yaoundé, la capitale del Camerun: «Le porte mi si sono aperte verso un’avventura che non avevo mai immaginato». Incontrando a Yaoundé i padri Marco Pagani e Maurizio Bezzi, Mireille ha trasformato un’esperienza che veniva considerata «una cosa dei bianchi», in una opera «di neri per i neri». Quella che inizialmente  era un’esperienza caritativa si è trasformata in impegno lavorativo per i ragazzi di strada, grazie al Centro sociale Edimar. «Si entra liberamente, ci si può lavare, ma non ricevere del cibo». E allora perché bussare? «I giovani vengono al centro perché qui, finalmente, trovano l’amicizia». Lo sguardo dei “figli” adottati da Mireille spiega tutto. «Da noi si comprende che la vita quotidiana è un miracolo». Ad Haiti qualcosa del genere sta accadendo. Pur nella crisi, «la gente è stata commossa dalla solidarietà internazionale e dall’attenzione riservatale dopo anni di oblio». Lo racconta Fiammetta Cappellini, operatrice dell’organizzazione non governativa Avsi, in prima linea  nei soccorsi post-terremoto ed ora nella «ricostruzione sociale» di un isola devastata. Un segno di speranza per gli haitiani è stato vedere Alessandro, il figlio di Fiammetta, tornare dalla mamma. «Oltre 30mila persone sono state aiutate da Avsi nelle prime necessità: tende, cibi, assistenza sanitaria. Moltissimi bambini, a causa del sisma, hanno visto per la prima volta un medico». Il male, il dolore, neanche qui ha avuto la meglio.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: