venerdì 8 febbraio 2013
Diminuisce i conflitti e riduce il tasso di divorzi. Gli esperti: «Con la bigenitorialità figli meno stressati». Una ricerca sociale comparata effettuata in diciannove Stati negli Usa dimostra che questa forma di gestione delle separazioni ha fatto diminuire i divorzi dell’8 per cento.
Sorprendente. Anzi, proprio no di Luciano Moia
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Fa bene al bambino, ma non solo. La bigenitorialità, anche nelle separazioni, giova alla società, perché diminuisce la propensione alla conflittualità di coppia e ridà fiducia all’istituzione matrimonio. Insomma puntare nel divorzio all’affido condiviso riduce drasticamente i fattori di stress, ansia, devianze psicologiche e cognitive del minore, ma in alcuni contesti sociali ha dimostrato di avere persino un effetto collaterale positivo: aumento dei matrimoni e calo delle separazioni. La particolare connessione sociologica è arrivata alla fine di quattro anni di analisi comparata tra diciannove Stati negli Usa. Secondo la ricerca condotta da tre studiosi (Richard Kuhn, John Guidubaldi, John Carroll) si deduce che l’affido condiviso diviene deterrente al divorzio nei territori che lo applicano in modo prevalente. Qui, infatti, in 42 mesi la fine dei matrimoni si è ridotta di otto punti percentuali; ugualmente, più la custodia congiunta diventa una rarità, più il tasso di divorzio scende solo dal 4 all’1%. C’è un rapporto dunque inversamente proporzionale «legato a fattori sociali ed economici», scrivono i sociologi americani, visto che il collocamento prevalente, l’assegno di mantenimento e la volontà di portar via i figli all’ex coniuge non esistono in caso di affido condiviso. Insomma se la custodia dei figli e il conseguente benefit economico «sono uno dei fattori più importanti per decidere di inoltrare domanda di divorzio», mettendo fine in una separazione alle diseguaglianze tra genitori, «è presumibile – concludono – che il genitore comprenda che possa essere più facile risolvere i problemi e rimanere sposato». Ma c’è di più. L’altra conseguenza positiva dell’affido condiviso, riscontrata anche in nazioni come la Svezia o l’Australia, è la fine della separazione vista come necessariamente conflittuale, a tutto vantaggio della psiche dei figli e della «fiducia che la società e le altre coppie riversano nel matrimonio». La ricerca prova difatti che, spiega Vittorio Vezzetti, il pediatra che ha analizzato gli studi internazionali, «ove c’è un alto tasso di affidamento condiviso si riscontra anche un aumento più evidente delle nozze: 18 matrimoni in più ogni mille adulti».Il nodo di tutto comunque continuano ad essere i figli, su cui spesso si riversano le paure e le ansie dei genitori. Per questo il doppio domicilio e il collocamento paritario, in Italia come altrove, sembra essere il golden standard da perseguire. Troppe volte le separazioni «diventano un campo di battaglia – ammette Carlo Ioppoli, presidente degli avvocati familiaristi italiani – con il bambino che non sa a chi far riferimento». Ma il figlio non c’entra nulla con la fine di un amore, fa eco Paolo Barcucci, segretario dell’ordine degli psicologi, va fatto un lavoro congiunto sugli adulti per «separare la funzione genitoriale da quella coniugale».La prima leggenda da estirpare sull’affido condiviso, innanzitutto, è quella che due case possano dare meno stabilità al bimbo, visto che secondo lo psichiatra Robert Bauserman, «il doppio domicilio non espone a rischi di conflitti o confusione, ma a benefici». La bigenitorialità viene promossa anche nel lungo periodo; basta pensare alla Svezia, dove il recente sondaggio Lindbergh sull’85% dei quindicenni ha provato che gli adolescenti monogenitoriali hanno una probabilità più alta di comportamenti a rischio e stress mentale.
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